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par Pier Paolo
Ottonello,
Professeur de philosophie à l'Université de Gênes, doyen du
Disspe,
dir. de Filosofia oggi, Riv. rosm. di filosofia,
Studi Europei et Studi Sciacchiani
Ciascuna persona, e ciascuna cultura, non possono volgersi
alla loro perfezione se non mirando a raggiungere ciò che è più semplice ed
essenziale. La loro grandezza è misurata dalla distanza fra ciò che è più
complesso ed inessenziale che attraversano per pervenirvi e ciò che è più
semplice ed esenziale. Il percorso sia dell'esistenza sia della storia è il
porre in rapporto gli estremi che segnano tale distanza: un rapporto dinamico,
che muta le determinazioni della prospettiva della distanza, senza che il
raggiungere il più semplice ed essenziale sia un perdere il più complesso ed
inessenziale.
Posso assumermi nell'immediatezza
dell'essere cosí e qui e ora: una semplicità raggiunta ma che, come
immediatezza, è unità indeterminata, anzitutto di ciò che, al di fuori di essa,
determino come cosí e qui e ora. Al tempo stesso, l'atto in cui la determino è
a sua volta immediato e semplice. Posso dunque porre in atto indefinite
determinazioni, a cominciare da quella di determinato e indeterminato,
complesso e semplice. Mi articolo e mi penso
articolarmi, secondo sempre nuove e sempre ritornanti forma di determinazione:
pensandole e dicendole. Il dirmi non è fuori del mio essere, cosí come non è
fuori di esso il pensarmi: è il determinarsi, semplice e generante indefinita
complessità di determinazioni, della distanza fra esterno e interno, fra
analisi e sintesi. Nessuna analisi è possibile senza sintesi, nessuna sintesi
senza analisi. Dunque due determinazioni di un'unica realtà. Nessuna semplicità
senza complessità, nessuna complessità senza semplicità: nessuna unità senza
molteplicità, nessuna molteplicità senza unità. Un'unica realtà, che include il
suo essere e il suo dirsi. Nessun essere senza riflessione, senza esseri: non finito
senza infinito, né infinito senza finito. Ma solo per il finito non è
infinito senza finito: dunque, al tempo stesso, per il finito per il
quale non è finito senza infinito, né infinito senza finito.
Io vivo il mio presente, ogni presente mio, come sintesi del
mio passato e del mio presente, di me e di altro da me: il mio presente è e
insieme non è il mio passato, e io sono io in quanto non sono l'altro da me,
senza poter essere senza l'altro da me. Il mio passato è l'intero passato,
sebbene immediatamente, ossia per ogni mio presente, sia solo parte del
passato, la parte presente; allo stesso modo il mio presente e il mio passato
sono e non sono l'intero passato e presente dell'intera realtà.
Dire distanza e differenza è porre relazioni necessarie:
l'intera realtà è l'interezza delle analogie per le quali è il mio essere ed è
l'essere di ogni realtà. Il linguaggio in quanto tale è l’intessitura delle
analogie: non altro dalla realtà, che peraltro è appunto impensabile‑indicibile
nella sua interezza, ma realtà del linguaggio che illumina la realtà
intera. Le analogie sono immagini che determinano le relazioni fra luce e
tenebra, fra determinazione e indeterminazione. La distanza, detta, ossia
significata, non è altro che distanza, ossia non lo è di meno, non è dunque
alterata, al contrario è illuminata come distanza. Al tempo stesso la si
determina, ossia identifica come tale: non distanza senza identificazione, non
identificazione senza distanza. L'analogia indica per allusione: se alterasse
per illusione, il linguaggio si annullerebbe e con il linguaggio il reale
tutto; la tenebra sarebbe l’indistinzione fra luce e tenebra, fra dentro e
fuori, fra ora e non ora, fra qui e non qui, fra parte e tutto, fra reale e
nulla.
E il mio stesso linguaggio di ora è insieme il linguaggio
del mio passato e il linguaggio dell'intero passato e dell'intero presente. E
tutto ciò pone in luce che il mio io è tale in quanto assoluta distanza e
insieme assoluta vicinanza con tutto l'altro da sé: mi identifico con me stesso
identificando l'altro da me come tale, dunque insieme compio la medesima
identificazione e la medesima distanziazione fra la mia realtà e la realtà
dell'altro da me e il mio dire tali realtà e il loro stesso dirsi. Ossia tutto
ciò pone in luce che io sono come finito, temporalmente e spazialmente, dunque
in relazione essenziale, costitutiva con l'infinito e l'assoluto: perciò mi
penso e mi dico, penso e dico l'altro da me secondo gradi e forme e modi sempre
diversi e distinti quanto al tempo e al significato, e insieme in modo tale da
illuminare l'identità di tutte le determinazioni; dunque, al tempo stesso, in
gradi e forme e modi sempre identici, dal finito all'infinito.
Né l'assoluta luce né l'assoluta tenebra, né il tutto né una
sola parte: sono realtà finita, che si dice in modo finito; ma sono tutta la
mia realtà finita, ed ogni mio dire finito è in quanto tensione assoluta alla
totalità del linguaggio, ossia non è se non interamente parte del suo intero.
Il linguaggio per sé dice l'ineffabile: l'ineffabile è
l'intero e insieme l'intero essere del linguaggio. Dico il mio io: dicendolo lo
illumino come ineffabile, a me stesso; dico finito e parte e tutto e infinito:
li illumino come ineffabili. Come dico la luce e la tenebra? l'essere e il non
essere, l'assoluto e il relativo, l'eterno e il temporale, l'essere e gli
esseri? Con immagini: che, analizzate ¾ con le medesime immagini ¾, posso chiamare analogie. Cono analogie che, analizzate ¾ con le medesime analogie ¾,posso chiamare concetti. Con concetti che, analizzati ¾ con i medesimi concetti ¾ posso chiamare principi
e categorie. E il linguaggio "ordinario", straordinario linguaggio:
il più semplice immediato genera il più complesso, e il più complesso ritrova
la sua essenzialità in ciò che è più semplice.
Tutto
ciò può riconsiderarsi attraverso determinate sue "illuminazioni",
ossia linguaggi storici determinati, che nel loro insieme appunto si
sintetizzano nel linguaggio, presente sintetico. Assoluto‑finito, Uno‑molti,
dialettica: le chiavi del linguaggio che il presente dice "presente".
Risalendo temporalmente al "limite" fra presente e passato: dalla
"metafisica" secondo Bergson alla teosofia secondo Rosmini. Dall'immenso edificio della storia, caduchi i materiali,
permanenti le strutture: appunto la "metafisica"[1].
Relazione che corrisponde a quella fra concetti vissuti e concetti astratti[2];
e fra bisogno di scienza e bisogno di mistica[3].
Più compiutamente: relazione fra scienza e sapienza come teosofia secondo
Rosmini; ossia fra mensare astratto e pensare intero, e fra essere ideale e
reale e morale; anche: fra razionalismo e soprannaturalismo, conflitto senza
possibilità di distruzione reciproca ed esigente reciproca integrazione. Il che
Rosmini sintetizza nell'idea negativa: pensare determinando idee
negative compie il pensare per idee positive, compiendo l'assoluto sapere come
sapere di sapere e come sapere di non sapere, e l'assoluto sapere come sapere
intero della persona intera: sempre di nuovo relazione essenziale tra finito e
assoluto.
L'idea positiva è la strada della metafisica, l'idea
negativa la strada della mistica. La negazione di positivo e negativo è la
negazione del percorso stesso: della storia, dunque della relazione essenziale
tra finito e infinito, tempo ed eternità, enti ed essere, creature e Creatore,
nulla ed essere. Metafisica e mistica: due forme del medesimo percorso del compiersi
perfettivo della storia, reciprocamente necessarie, reciprocamente
integratrici. Disconoscere tali reciprocità è
la radicale ignoranza: la medesima che confonde il mistero con la
contraddizione[4].
Culmini della loro reciprocità, "prima" di
Rosmini: il dire di Agostino che «l'uomo in sé non è (...) è
quando vede Dio»; e il dire di Giovanni della Croce: «appàgati non di ciò che comprendi
di Dio, ma di ciò che non comprendi»[5].
Mi chiedi, ossia mi chiedo, che è filosofia, che è
filosofo. Puoi chiederlo a chiunque, oppure non
può chiederlo nemmeno a me. Questa è una risposta filosofica, che nessuno se
non il filosofo darebbe? Se questo obbietto, denuncio la mia domanda come
pseudodomanda: chi la pone già sa che è filosofia, chi è filosofo. Oppure si
vuol confrontare ciò che uno sa con ciò che un altro sa: e si vuol porre
l'implicito accanto al meno implicito, confrontandoli continuamente? Sono
inscindibili, come ombra e luce: la ricerca sarebbe passaggio continuo da un
implicito a un meno implicito, senza poter mai annullare l'implicito: se lo
potessi sarei sofo, non filo‑sofo, ossia inseguitore
dell'interezza dispiegata, luminosamente esplicitata, della verità. Dunque so
che non potrò mai essere sapiente, se non posso esaurire la verità, ossia
totalmente identificarmi con essa nella sua assolutezza. Posso solo sapere
questo, ossia che non so, che non posso sapere. Incece posso solo sapere che
non solo talmente: posso solo sapere in parte e dunque sapere che so solo in
parte, che non so totalmente. Parte di che? Di tutto ciò che posso sapere e che
non posso sapere. A cominciare da me stesso. Posso sapere me stesso sapendo che
il mio sapere è solo sapere parziale di parti, e che il sapere è solo parte di
me stesso. Altra parte è il dire il sapere e il dire me stesso. Ma, se cosí, mi
frammento all'infinito: senza più poter trovare nemmento l'unità di me stesso.
Debbo continuare a cercarmi: è la mia unità prima; e a cercarmi nella mia
interezza e nella mia perfezione: è la mia unità compiuta. Non c'è né sapere né
conoscere né intelligere se non come sapere conoscere intelligere me stesso
come sapente conoscente intelligente e come non identificantemi con sapere
conoscere intelligere. Esce allo scoperto, accusando se stessa, anche nolente,
la famosa "astrattezza" della filosofia, da acchiappaparole o
acchiappanuvole o stringilacqua? Ma se vivo senza intelligere né che vivo, né,
quindi, che sono nato e che morirò, in realtà nemmeno esisto, altro che vivere
"concretamente"! Debbo dunque distinguere fra l'astrazione, che è la
condizione dell'intelligere come dell'intelligere è condizione l'integrare le
parti astratte dall'intero, e l'astrattezza, che è di chi crede di poter
prescindere ¾ e cerca di prescinderne ¾ da qualsiasi atto di intelligenza, limitandola ad implicito
da non esplicitare. Ma il vivere è esplicitare se stessi. L'astrattezza è la
scelta di non pensare e non intelligere, pur non potendo attuare tale scelta,
che pure resta tale: è l'incoerenza.
Coerenza è riconoscere e compiere nella sua perfezione la
relazione essenziale fra particolare e universale. Ogni mio atto e attimo è
unico e irrepetibile; e, in quanto è, è eterno; ed è universale, in quanto ha
significato; e, in quanto ha significato, è rapporto con tutti gli altri attimi
e atti: il movimento di particella subatomica è in relazione con tutti i
movimenti dell'intera realtà. La relazione è necessaria in quanto relazione
essere‑esseri: è necessaria in quanto è, ma è in quanto attuata nella
libertà assoluta della gratuità della creazione. Ogni nostro attimo e atto è
necessario in quanto voluto liberamente.
Per la stessa ragione: "inizio" un discorso, ossia
lo continuo creativamente, insieme attraverso l'apparentemente accidentale e il
realmente universale. Quale che sia, l’“inizio" non è mai tale: è,
piuttosto, una conclusione dalla quale di nuovo iniziare.
Posso muovere dalla mia esperienza visiva dell'incontro di
una persona: ne vedo un'immagine che è un suo frammento. Tutto ciò che non
percepisco lo creo per integrazione: l'incontro è l'arricchirsi delle
integrazioni che io creo e che l'altro crea. Vedo essenzialmente l'invisibile,
sento l’inudibile, gusto il non sensibile, intelligo intelligendo
l'incompibilità assoluta del mio intelligere. Il negativo è la condizione della
creatività: il nulla è la condizione della creazione assoluta: è condizione
solo dal lato del creato. Ogni conoscenza, sapere, filosofia, è essenzialmente
negativa: è acquisizione sempre più ampia di sapere di non sapere. Perciò è
massima creatività: qualsiasi ampiamento del sapere di non sapere è ampliamento
di sapere. La filosofia muove dalla assunzione della consapevolezza del finito:
di sé e del mondo; che è acquisizione della consapevolezza dell'infinito,
dell'assoluta creazione e del nulla del finito creato. E perviene, sempre di
nuovo, al finito: come assunzione della sua positività massima, in quanto
creata, cioè essente.
Lo "scarto" che si proietta su ogni mio attimo e
atto, in quanto lo costituisce, tra finito e infinito, tra particolare e
universale, lo si assume filosoficamente come ironia e come umorismo. La gioia
metafisica dell'essente come consapevolezza del proprio essere creato, dunque
finito ed eterno, nella sua assunzione piena, attraverso la filosofia,
necessita dell'ironia come assunzione del distacco dal sé che è illusione di
autosufficienza e come consapevolezza dell'essere, insieme, quasi niente ¾ ossia niente, da se stesso ¾ ed eterno in quanto creato: l'umiltà radicale è assunzione
della radicale dignità, cioè dell'autonomia e della libertà, della creatura
come tale? E necessita dell'umorismo come assunzione del distacco dal sé che si
illude di essere autosufficiente rispetto agli altri e al reale tutto. Senza
ironia e umorismo non è possibile filosofia, perché non si pone in atto
l'intelligenza nella sua interezza.
La maturità intensifica ed estende le energie sintetiche e
accresce la selettività della memoria. Lo scrivere raccoglie sintesi e
strumenti di memoria anzitutto per il suo autore. Il quale sempre più
pienamente sa che esso è comunque insufficiente a contenere vivere pensare
esistere, il loro più essenziale significato; e non solo in quanto di essi è soltanto
una parte. Lo stesso vale per il parlare. Né una sola né tutte insieme le più
ricche forme di comunicazione possono contenere ciò che pur vogliono
proiettare, in indefinite prospettive e in forme sempre perfettibili e mai
esaustive.
Filosofia è percorso al compiersi
dell'intelligere, del capire, dell'amare: è l’intessitura con cui ciascuna
persona dà forma al proprio disegno, collocando in diverse relazioni presente e
passato, scorrere e perdurare, tempo ed eternità. Forma è ordine, molteplice e
uno. È risultato e nuovo punto di partenza, crogiolo dell'intuire e del
riflettere, del sentire e del volere, del perfezionarsi e del perfezionare
persone e cose. Personale ne è la forma,
universale il significato. Filosofia è la filosofia mia e la mia filosofia è
filosofia.
Il tempo è il percorso, lo
spazio le sue direzioni: entrambi generati dalla libertà, i cui limiti, sono
l'attuarsi compiuto e il totale annichilirsi. La libertà è combattimento senza
tregua di volta in volta nella direzione di uno dei suoi limiti. La direzione
dell'attuarsi si compie intelligendo e amando il tempo nell'eternità. La
direzione dell'annichilirsi riduce tutto a temporalità, come quasi nulla del
fluire da un indefinito nulla a un indefinito nulla: togliere il quasi è
compiere l’annichilimento. La prima direzione ricrea l'ordine del corpo nello
spirito amando lo Spirito creatore incarnato ricreatore, Dio unitrino. La
seconda declina intelligere e volere il nulla come nulla dell'intelligere e del
volere, come niente di ogni significato. Il combattimento vero non è mai contro:
è quello del costruire il riconoscimento e la riconoscenza, distinguendo sempre
di nuovo, per la libertà, le sue possibilità di scegliere la direzione
dell'ordine o quella dell'annichilimento. Questa distinzione è il perno della
criticità. La scelta è sempre fra criticità e crisi: la criticità è la
condizione dell'intelligere e dell'amare interi, nell'unità delle differenze
fra ordine e nulla, fra assoluto e limite, fra intelligenza e amore. La crisi è
differenza contro unità, sino all'indifferenza tra apparenza e nulla.
L'intelligere e amare perfettibilmente, entro il limite proprio della persona
umana e di ciascuna persona, si compie in quanto intelligere e amare ogni
realtà nello Spirito creatore incarnato ricreatore. Ogni percorso che si
allontani da tale direzione, quella dell'ordine aggettivo, è perciò stesso
volgersi contro, in assoluto: erigendo e cristallizzando il bigottismo
dell'idolatria come alternativa al dispiegarsi della libertà risplendente di
ogni vero e bene parziale nell'assoluto Amore.
Non c'è verità che non sia universalmente comunicabile: solo
una verità è comunicabile universalmente, è universale autocomunicazione. Ma: o
ci identifichiamo perfettamente con l'intera verità, essendoci "fatti
verità", o possiamo accedere, nella singolarità della nostra persona,
all'universalità della verità solo negativo, ossia per integrazione rispetto
alla "parte" di verità con la quale ci identifichiamo essendoci fatti
verità. In ogni caso, siamo a noi stessi solo in quanto ci radichiamo in una
sorta di alfabeto della verità, in un iniziale percorso nella verità, volendolo
intraprendere e compiere e sapendo di voler farlo.
La "normalità" del nostro radicale analfabetismo
impone che sempre di nuovo assumiamo gli elementi primi del nostro essere:
l'essere, gli esseri, l’intelligere, l'amore, la molteplicità delle loro forme
e gradi entro la loro unità. Dunque a cominciare dal distinguere le condizioni
del pensare in quanto assumere la realtà come significante. Il che include,
ad un livello elementare e basico, differenze, dunque relazioni, fra
intelligere e riflettere, tra filosofare e filosofia, tra filosofo e...
professore di filosofia. Certo ho trovato molti più filosofi fra artigiani che
fra "colleghi". E intelligere, riflettere, filosofare sono condizioni
necessarie alla filosofia, dunque non vi si identificano. Nel senso che
filosofia è il sistema coerente delle tesi attraverso le quali il reale
unitotale è significante: filosofia è dunque teoria del reale intero,
inclusiva del significato di se stessa e delle sue condizioni, e perciò di
tutti gli atti, e le forme propri della persona e della storia. La filosofia
dunque non è il reale che significa, nell'atto che assolutamente è la
realtà del suo significato: niente è senza significato, perché il significato
primo è l'essere. Ma in quanto non sono l'essere, gli esseri mi sono
significanti, il mio stesso essere fra gli esseri, anzitutto in negativo:
appunto a cominciare dal significato del mio essere come non essere l’essere,
e in positivo solo integrativamente, in quanto cioè non ha significato alcuno
non essere senza l'essere, dunque gli esseri in quanto sono senza esser
l'essere, non essendo l'essere. Il filosofare è il percorso in negativo entro
l'assoluta positività dell'essere. Perciò la stessa filosofia può anzitutto
determinarsi in negativo, attraverso tutto ciò che non è. In modo simbolico,
ossia universalmente abbreviativo: non è né filosofare né alcuna sua
condizione; non è incoerenza. Il sigillo essenziale della filosofia è la
coerenza: fra tutte le tesi teoretiche di cui è sistema, ossia organismo di
totali integrazioni; fra la teoresi e ciò che l'ha generata e ciò che essa genera:
è coerenza dell'integralità della persona come intelligenza amativa e amore
contemplante: come creatura creatrice.
Il tempo è concepibile solo come finitezza, delimitata da un
inizio e da un termine, dunque intelligibile solo entro l'infinito
dell'eternità. Se cerco una intelligenza del tempo entro il tempo stesso, la
sua stessa finitezza si sfalda: ma nell'infinitezza, quella potenziale della
"divisibilità" del suo fluire in istanti, non confrontabili o
rapportabili. reciprocamente, per cui non si possa assumere come loro
unificabilità pur astratta né l'unicità né la diversità. Intelligere il tempo è
possibile solo mediante la memoria e l'attesa, come presente: del passato e del
futuribile: il fluire molteplice del tempo è intelligibile solo mediante
l'unità dinamica del presente temporale: e il presente temporale solo entro il
presente eterno. Non posso pensare il prima rispetto al tempo: non posso
pensare il prima rispetto al pensare e non posso pensare l'eterno pensare, se
non eternamente. Ma: o non penso, o penso anche il pensare: pensare è
essenzialmente pensare il rapporto fra pensare e non pensare, fra pensare e
altro da esso, che non ne è semplicemente l’“oggetto", perché pensare è
solo in quanto insieme soggetto e oggetto di sé, in unità e distinzione.
Pensare è infatti unità e distinzione di intuire e riflettere: il pensare nel
suo dispiegamento di integrazione è l’intelligere. L'intelligenza è l'atto
dell'assumere il molteplice in unità e l'unità come dinamismo: i fatti
costituiti dalle determinazioni dell'intelligenza né singolarmente né nella
potenziale loro totalità corrispondono all'atto dell’intelligere, che è il
presente temporale entro il presente eterno, ossia il presente eterno che
"crea" il presente temporale. Pensare è pensare il creare e creare
il pensare stesso: il nulla del "puro istante" è condizione della
intelligibilità, ossia della relazione fra gli attimi temporali, fatti, entro
l'atto della presenza temporale, che a sua volta è fatto entro il presente
eterno. Oppure: solo nulla, ossia nemmeno nulla e niente.
Il linguaggio si porta appresso un passato dall'ampiezza
quasi insondabile: ma anche un presente, forse ancor più difficilmente
sondabile. Se appena vi si riflette, ciascuna delle parole che, di volta in
volta o nel senso più generalizzato, riteniamo essere "chiavi"
linguistiche, proprio in quanto tali contengono ampie possibilità di
"girare su se stesse" in modi diversi, a raggi più o meno inclusivi,
per aprire porte diverse. Applico l'osservazione ai termini "chiave"
con cui l'ho formulata: linguaggio, passato, presente. In tutti questi tre casi
emerge che l'uso di tali termini ne mette in luce di volta in volta quasi una
punta d'iceberg, ossia elementi che si assumono come sintetici e come
tali. più fungenti rispetto all'intessitura linguistica e ai significati di cui
si intenziona. Tali elementi sintetici sono molteplici. A loro volta possono
essere sintetizzati in quello che dunque assumo come significato centrale o
portante di quel determinato termine. Linguaggio: comunicazione interpersonale;
passato: ciò che del passato presentifico; presente: l'attualità della
presentificazione. Il linguaggio stesso si conferma dunque come significante
sempre solo parte delle sue potenzialità, che dunque la sua attualità
mai adegua, secondo una dinamica di scarto, ossia di persistente in
quanto non eliminabile differenza fra parti e intero. Tale struttura si
rivela essere la medesima di ogni atto di intelligenza, nonché di sensazione o
percezione. Ogni atto percettivo o sensitivo per sé è una sorta di aggregazione
atomica di subparticelle percettive o sensitive: ogni atto di intelligenza
coglie essenzialmente tale struttura di scarto, assumendo sempre di
nuovo differenze e dunque sempre di nuovo integrando l'unità e
l'interezza senza la quale nessuna subparticola può essere tale né essere come
tale "misurata". L'intelligenza è dunque l'attività analitica e
sintetica dell'integrazione. Restando ai medesimi esempi: il linguaggio,
intenzionalmente e attualmente, "porta", ossia comunica, parti di
realtà e parti di tali parti sono variamente recepite, secondo la medesima
dinamica di scarto; ma ogni scarto può essere giudicato e recepito come tale
solo in farza appunto di una integrazione, a sua volta secondo una attualità
che non adegua mai totalmente la sua potenzialità, fra scarto e non scarto, fra
ciò che "resta fuori" in tale dinamica e la totalità senza la quale
la dinamica stessa non è tale, né può essere affatto. Le medesime osservazioni
sono valide in rapporto a passato e presente: nonché agli altri termini
"chiave" appena emersi, come ad esempio "dinamica" o
"struttura". La struttura della realtà è dunque la circolarità di
intelligenza e realtà: la realtà dell'intelligenza assume parti del reale e se
stessa in un intero.
Allo "scarto" corrisponde il "problema":
ogni scarto, assunto come tale, si configura come rapporto, e serie di
rapporti, fra parte e intero, la cui differenza e identificazione dà appunto lo
scarto. Quanto meno da Cartesio l'abito mentale prevalente è problematicistico:
erige il problema come la determinazione dell'intelligenza, con ciò stesso
dogmatizzando il problema, cioè assumendo a totalità dell'intelligenza la sua
parte che "partisce", ossia distingue, analizza, lasciando "da
parte" l'intero senza cui né la parte né il parzializzare sono tali.
Intelligere, pensare come strutturazione dell'intelligere, non è essenzialmente
problematizzare, porre problemi e, indefinitamente, subproblemi, costruendo
aggregazioni problematiche: è essenzialmente risolvere, ossia collocare
sempre di nuovo le parti entro l'intero. Tale struttura rivela come insensata
qualsiasi forma del cosiddetto "dubbio metodico": non si dà dubbio se
non come determinazione di, certezza. Dubbio è solo l’“immagine" del porre
diverse parti come possibilità, che, come tali, necessitano libere scelte.
La libertà include la necessità: la certezza include i dubbi: la soluzione
include i problemi. I problemi sono infatti determinazioni di soluzioni che li
includono. Restando ai medesimo esempi: posso porre un problema solo
distinguendone termini, che pongo e assumo in relazioni molteplici; ma terminie
relazioni non hanno nessun senso come tali se non entro gli atti totalizzanto
dell'intelligenza che li distinguono solo in quanto li includono e risolvono in
unità. Tale dinamica non sminuisce affatto ¾ al contrario ¾ l'essenzialità del problematizzare: il problematizzare come
tale è la conferma della verità... dell'infinità della verità. Nessuna ricerca
può essere tale se non entro una verità: scoprire, inventare, risolvere
è determinare sempre nuove possibilità o parti di un intero sempre liberamente
e necessariamente potenziale. L'insieme degli aspetti della medesima dinamica
qui affacciata discopre altre strutture, fra le quali primariamente quelle di
verità‑ricerca e di libertà‑limite, nei termini appunto per cui
nessuna ricerca è possibile se non entro il limite costitutivo della persona e
come determinazione della persona stessa, dunque come autodeterminazione.
L'autodeterminazione è costitutiva della persona, che non può non
autodeterminarsi, scegliere parti, attuando, nella interezza del suo attuarsi
spazio‑temporale, l'interezza del proprio limite come intelligenza e
libertà.
(*) "Introduction" de l'ouvrage
publié sous ce titre aux éditions Marsilio, à Venise, en 2002, et constituant
le volume 23 des écrits de P. P. Ottonello. La première partie de cet ensemble
d'essais regroupe diverses études anciennes sur s. Jean de La Croix, s. Catherine de Sienne, Rosmini,
Kierkergaard, Bergson, Eliade, Unamuno, Lavelle, Sciacca… ; la seconde partie,
dernier tiers du recueil, reprend des articles récemment composés, qui traitent
de plusieurs thèmes familiers à la B.P.C., du sacré et du profane à la réalité
des symboles, de la personne au progrès et au rapport délicat de la guerre et
de la paix, dans une perspective originale, où l'on reconnaîtra les
interprétations de l'auteur de Structure et formes du nihilisme européen.
(N.d. r. Thèmes)
© THÈMES II/2003
[1] Basti, qui, il riferimento a L'evolution créatrice,
Paris 1909, p. 352.
[2] Cfr. ad es. R. Garrigou‑Lagrange, Le tre età della
vita interiore, Roma 1984, vol. III, p. 20.
[3] Cfr. ad es. B. Russell, Misticismo e logica, Roma
1970, p. 17.
[4] Mi riferisco, esemplarmente, ai seguenti luoghi dell'opera
di Rosmini: Teosofia, n. 858; I1 razionalismo teologico, n. 2; Psicologia,
Prefazione, n. 25; Ib., n. 1410; Introduzione alla filosofia, n.
40.
[5] Rispettivamente: In Ps. 121, 8 e Subida, II,
4, 4.