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Pace nella guerra (*)
par
Pier Paolo Ottonello,
Professeur de
philosophie à l'Université de Gênes, doyen du Disspe,
dir. de Filosofia
oggi, Riv. rosm. di filosofia, Studi Europei et Studi Sciacchiani
Il nostro tempo appare, da un lato, segnato da supreme
esortazioni affinché non ci siano mai più guerre: esortazioni senza eguali
nella storia a noi più nota, e forse accostabili solo alle esortazioni e alle
minacce profetiche veterotestamentarie. Perché, d'altro lato, forse mai la
storia di cui si abbia qualche memoria ha conosciuto come quella dal novecento
ad oggi il proliferare e l'universalizzarsi non solo delle forme più consuete
della guerra, ma di un loro straordinario moltiplicarsi, sembrerebbe secondo
dinamiche di mutazioni a catena: il novecento, fra le sue grande invenzioni,
registra anche quella della guerra mondiale. Di conseguenza ha moltiplicato
anche i tentativi di arginare questo immane franamento, ad esempio con nuovi
strumenti internazionali e, possibilmente, sovranazionali. Al tempo stesso, in
ogni caso, rafforzando le cosiddette "paci armate", edizioni odierne
di ciò che la romanità ha ben espresso nel noto detto si vis pacem para bellum;
dunque inventando anche, come dopo‑guerra mondiale, la "guerra
fredda".
I greci, con Eraclito, pongono in primo piano la necessità
della guerra metafisica per conseguire sempre di nuovo l'ordine metafisico,
nella chiave della connessione vitale di caos e di ordine, di polemos e logos,
di guerra e armonia. I greci ci insegnano anche quella che non è certo una
delle mirabolanti scoperte delle cosiddette scienze psicologiche e
sociologiche, ossia che solo l'uomo conosce la paura in forme tanto intense e
durevoli, oltre che molteplici: distinguendo fondamentalmente fra deimos,
terrore, e phobos, paura; ossia, in modo molto approssimativo, fra la
percezione di un pericolo tanto grande e inevitabile che di fronte ad esso non
ha senso nessun tentativo di fuga, in quanto inutile, sicché se ne resta
paralizzati; e pericoli che ci inducono a moti di fuga in rapporto alla
percezione che si possa con qualche successo tentar di evitarli combattendoli.
E pone la connessione fortemente significativa fra paura e maschera,
sostanziale e illusorio, verità e menzogna: una serie di connessioni che per se
stessa include una serie ben più ampia di conflitti e guerre fra i poli che vi
si connettono; guerre perenni, non superabili né estinguibili, finché appunto
si distingua, anzitutto, verità e menzogna. La dialettica propria del mondo greco
dà rilievo massimo a tali guerre perenni e insieme concepisce il logos, senza
il quale non possono avere nessun significato, come la possibilità della loro
profonda mediazione. In questo senso si può dire che il mondo classico nella
sua generalità concepisce come normale lo stato di conflitto, di guerra nelle
sue molteplici forme, il cui significato o ragione, logos, è la vita stessa
come sviluppo e ciclo. A livello superficiale è facilissimo riconoscere
analogie forti tra il naturalismo fondamentale proprio di tale concezione e, ad
esempio la concezione della struggle of life tipica del positivismo e
materialismo oggi dominanti non solo nelle scienze nella politica
nell'economia.
Ma d'altro lato il mondo classico pone in primo piano anche
un'altra accezione di guerra che la contemponeità per lo più cerca di glissare
e relegare in ultimo piano: intendo riferirmi alla guerra spirituale – dunque
non solo "psicologica"! – come la guerra prima, la più dura e ardua,
la radice di tutte le forme di guerra esteriore, in tutti i casi in cui si
svolga in direzione disordinatrice anziché di perfezionamento di un ordine e di
ordini sempre più ampi e inclusivi. Questo significato implica che nessuna
guerra esteriore può terminare concludendosi con una vera pace se con una vera
pace non si conclude la guerra interiore che l'ha generata.
Il mondo greco ce lo insegna in particolare nelle sue
connessioni, profonde e per lo più sotterranee, con l'ebraismo. Emergono con
forza ad esempio in Filone Alessandrino, là dove sottolinea la tesi secondo la
quale chi non ubbidisce a Dio ma a più dèi genera, per ciò stesso, guerre entro
sé medesimo, le quali fomentano le guerre esteriori: la loro causa fondamentale
si comprende appieno solo ritrovandola entro le innumerevoli forme di idolatria
e politeismo. È dunque una tesi che vale ieri come oggi. Ed è tesi che si
conferma e compie nell'Apocalisse, in modo radicalmente nuovo rispetto
al mondo greco. Secondo l'Apocalisse la guerra è infatti stato perenne di
questo mondo, che terminerà soltanto con la caduta di Satana (12, 7; 20, 4‑6):
donde i nuovi cieli e la nuova terra, quelli appunto della pace non
offuscabile.
D'altro lato è ben noto che la fondamentale concezione della
pace propria della classicità si compendia in termini di tranquillità (esychia)
come quieto possesso della prosperità. In questo senso la pace è sempre e solo
"tregua", assenza di guerra come intervallo fra guerre, le quali sono
necessarie, di volta in volta, per assicurarsi la prosperità, o per
accrescerla. Nella romanità un Orazio, nei suoi Carmi (4, 15) fa
culminare la pax romana augustea con il porre fine alla guerra in quanto
tale rinnovando l'età dell'oro: ma si tratta forse piuttosto di conformismo retorico
che non di profonda persuasione che si è veramente riapprodati al felice evo
originario. Invece Marco Aurelio riconduce il problema della pace alla sua
essenziale dimensione interiore come galene, ossia contravveleno che
riarmonizza l'anima (De tranquillitate animae, 19).
La greca pace come tranquillità, eirene, nel greco
della traduzione della Bibbia è spesso fusa con l'ebraico šalōm,
che si può tradurre anzitutto come salute, ed implica in modo essenziale ciò
che la garantisce, ossia il patto di alleanza per la mia salute (Is.
54, 10), che ha una base materiale e una culminazione spirituale: in sostanza
designa la non guerra frutto di accordi e riconciliazione e, al tempo stesso,
il dono che è solo da Dio, la salvezza. In tale senso il Messia è chiamato
«principe della pace» (Is. 9, 5). Questo peraltro conferma l'essenziale
inclusione in tale significato di una accezione politica, cioè riguardante il
governo della comunità. Anche a questo proposito resta perennemente valida la
denuncia di Geremia (28): «sanano in modo semplicistico i mali del popolo e
gridano: salute, salute, ma non è vera salute».
La pace e la tranquillità sia nella tradizione classica sia
in quella veterotestamentaria restano dunque contrassegnate da un significato
essenzialmente in negativo, cioè come non guerra, in sostanza
sottintendendo la sua natura di intervallo fra guerre, di tregua che si può
tentar di prolungare in modo indefinito ponendo in atto equilibri di forze
sempre più accortamente gestiti, mediante accordi frutto di patteggiamenti e
scambi. e compromessi. In questo senso prevale un significato essenzialmente
politico della pace, che può essere generata dall'impegno umano in vista di più
ampie convenienze e in ordine alla quale la buona volontà è volontà di riuscita
nell'intento di raggiungere equilibri il più possibile stabilizzati. Prima
ancora che pace della persona singola è dunque pace sociale come equilibrio
relativo alla comunità.
La pace in senso evangelico non nega questo tipo di pace: ma
sconvolge nel modo più radicale il significato più profondo della pace. Infatti
la pace in terra è solo quella degli uomini di buona volontà: è propria degli
operatori di pace delle beatitudini (Mt. 5, 9), ossia di coloro la cui
volontà aderisca alla Volontà di Dio, il Dio della pace (Rom. 16, 20; Ef.
2, 14‑15), l'Incarnato che dà la sua pace, ma essendo venuto a portare
non la pace ma la guerra (Mt. 10, 34). La metanoia della pace pone
dunque una guerra sino alla fine dei tempi fra pace vera e intera e pace falsa
e parziale, fra pace come la dà il mondo, ossia come equilibrismo fra beni e
mali, e la pace dell'Innocente da ogni male, in guerra contro ogni male e
dunque di. Colui che si fa la Vittima delle guerre del mondo vincendole,
essendo l’Unico che può vincere la guerra alle guerre; però non togliendo ogni
male dal mondo, bensì rigettandolo, nel perfetto Amore che dona la propria vita
pura intera a chiunque abbia perduto la propria vita intera ossia la vita
spirituale, avendo ridotto la guerra interiore a lotta per salvare la propria
vita parziale, la vita terrena.
È posto così lo spartiacque assoluto e perenne. Ogni
tranquillità terrena è frutto di compromessi per far pace con il male: è la
pace propria di tutti i pacifismi, che si riducono a gridi contro, senza
impegnarsi nella carità necessariamente martire dell'operare la pace. Infatti
la vera pace è solo la guerra inesausta contro ogni male. Ed è pace vera che
non può vincersi da soli, ma che è vinta in ogni operatore di pace solo
dall'Amore di Dio grazie al quale amo e opero la sua Volontà. L'operatore di
pace non può dunque essere mai "tranquillo", ma deve essere
radicalmente e senza sosta "irrequieto", attivissimo nell'invenzione
delle forme della carità, perciò agli antipodi delle "agitazioni"
pacifiste: irrequieto agostinianamente, cioè in guerra senza limite solo con se
stesso e solo contro ogni male, ossia disordine, fino alla tranquillità
dell'ordine, nella perfetta quiete dell'amore per la Volontà di Dio Amore, che
è la vera pace (De civ. Dei, XIX, 13, 1).
Ma qual è l'essenza
dell'ordine? Proprio questo problema è il cratere dal quale erompe il fuoco di
tutte le guerre, ciascuna delle quali tenta di imporre il proprio ordine, che
perciò non può non essere se non parziale, certamente non universale. L'unico
ordine assoluto è quello dell'Amore assoluto di Dio creante e ricreante l'amore
totale dell'amore per Dio e nell'amore per Dio amore per l'intero creato: è il
circolo dell'unico amore universale, che non noi generiamo, ma che siamo
riconoscendolo totalmente come generanteci e rigeneranteci. L'ardua coerenza
dell'amore è la pace somma della guerra come odio contro ogni altro odio,
contro ogni male come disamore, o amore disordinato, contro il male amare
agostiniano. L'unica vera pace è il vero amore che è l'odio di ogni disordine:
dunque odio per la propria vita che si riduca a temporalità finita per salvarla
interamente ed eternamente. Il problema perenne delle guerre e delle paci è
assunto e sciolto in modo assoluto in Dio Incarnato crocifisso risorto.
L'intelligenza umana nella sua integralità come integralità della persona, se
non si fosse autodepotenziata e dunque obnubilata, sarebbe perfettamente capace
di pensare come pienamente razionale la logica della Croce: rifà
l’intelligenzacapace di intelligerla, sebbene in modo sempre perfettibile nella
vita terrena. Può dunque intelligere il significato primo e ultimo della pace
vera come guerra spirituale e delle guerre esteriori come dinamica di
disentegrazione e di annichilimento della guerra spirituale.
L'odierno grido "mai più guerre" che si leva
nell'ultimo quarantennio – dalla Pacem in terris: grido solitario nel
deserto che la guerra è e accresce – è drammatica risposta alla normalizzazione
di tutte le guerre. Una normalizzazione che a sua volta è il corrispettivo del
progressivo globalizzarsi delle ingovernabilità: dalle società più semplici a
quelle più ampie e complesse, cioè dalla persona stessa nella sua singolarità
alla società coniugale e famiglia re e alle società di nazioni. A chiunque
guerreggi è evidente che la propria azione non può essere risolutiva in modo
sostanziale e duraturo: può solo generare forme di guerra più deterrenti allo
scopo di bloccare, rendendole impotenti, forme anteriori meno perfette, meno
potenti. La logica della guerra è far guerra alle forme minori di guerra
eliminandole entro la guerra totale per più duratura pace. È la medesima logica
della pace, dell'amore che tende alla perfezione, all'assolutezza: ma in senso
negativo, cercando "equilibri" fra mali, frutto in realtà di
disordinanti equilibrismi fra mali minori e mali maggiori, in modo che questi
sempre l'abbiano vinta sui primi, ossia i beni minori sui beni maggiori. Così,
vinta la guerra maggiore contro il Bene assoluto, cioè evasa ogni
"tentazione del bene e dell'ottimo", resta solo spazio per il
progresso come perfezionamento nel negativo e nella distuzione.
Dall’età illuministica si succede un crescente
sbandieramento di paci che tentano maggiori inclusività e durate e, insieme,
una crescente esplosione di guerre sempre più estese e radicali. Bastino come
esempi le opere di De Castel, Memorie per rendere la pace perpetua in Europa,
del 1712, e, di Kant, la più nota Pace perpetua, del 1795: scritti nati
in due periodi segnati nel modo più profondo da guerre internazionali e da
forme nuove di guerra, le rivoluzioni.
Qualche decennio dopo, Hegel ne segna la massima
normalizzazione teoretica, concependo le guerre come un bene che conserva la
salute etica dei popoli: una sorta di raffinato eraclitismo di ritorno. Da
Hegel a oggi esaltazioni della guerra e guerre sempre più ampie si rincorrono a
ritmi sempre più forsennati: sino alla follia che, nella seconda metà
dell'Ottocento, proclama la guerra come un "fatto divino", secondo il
giudizio che Proudhon formula nell'opera La guerra e la pace del 1861; o
come il principio stesso del progresso, secondo la determinazione proposta dal
Matille nella sua Filosofia della guerra del 1874.
Dopo gli ottimi tentativi di porre i principi di una pace
planetaria compiuti da Leibniz, e di dar vita a un ordine internazionale nella
giustizia, proposta, quest'ultima, formulata da Rosmini e rimasta inascoltata e
ignorata, continua a crescere l’ingovernabilità normalizzata e planetarizzata,
parallelamente al crescere di organismi internazionali – ma non veramente
sovranazionali, cioè sostanzialmente ordinati e giusti –, che dovrebbero
garantire le paci come equilibri ed equilibrismi fra le guerre e le potenze e
le forze, in realtà identificate con le forze economiche. Dopo le guerre
mondiali, che sono state il centro di tutte le forme di guerra del Novecento,
gli organismi internazionali sono divenuti essenzialmente voci e strumenti
della tecnocrazia planetaria, frutto dell'economicismo con il quale si sono
identificate le politiche cosiddette "forti" dei raggruppamenti
economici più potenti, che hanno realizzato una forma di sovranazionalismo che
cresce nella misura in cui riduce le persone a soggettività autoconsumantesi, a
persone fictae, involucri o maschere del niente di spirito. Per esse lo spirito
è, tutt'al più, l'ultimo toccasana del "ridere per vivere" entro
l'ultima superetica del "vivere per ridere".
Siamo stellarmente lontani da ogni sentore di combattimento
spirituale, di quella violenza su se stessi senza cui non si apre il Regno dei
Cieli ossia della guerra alla propria superbia per annichilirla nella guerra
della pazienza e della buona perseveranza che alimenta la nostra milizia come
necessaria e costantemente vigile. Spogliarsi della propria superbia è far
sfolgorare la ricchezza dello spirito di povertà, nel cui regno, scrive S.
Caterina da Siena, «non c'è mai guerra, ma sempre pace e quiete» (Dialogo,
n. 151). Lo spirito di autosufficienza è infatti l'origine di tutte le pessime
guerre: spogliarsene è fuggire – scrive Rosmini nelle Massime di perfezione
(lez. IV, pp. 45‑46) – dalla «cecità di mente» e dall’«occulto orgoglio»,
bandendo perciò ogni «inquietudine, e ogni specie di ansietà». La carità
universale, l'unico alimento del bene personale e comune, è il martirio del
farsi integra della persona, intera e perfetta nell'offerta totale di sé alla
Provvidenza amorosissima e misericordiosissima. La pace, come non la può dare
il mondo più pacifista e soddisfatto, è dunque solo dono di Dio agli uomini di
buona volontà: a coloro che si fanno testimoni della carità. Le paci del mondo
che generano pacifismi in realtà generano maschere e alibi di guerre sempre più
profondamente distruttive – con i genocidi degli aborti e dell'eutanasia –,
avendo esse già radicalmente distrutto ogni significato di guerra spirituale.
Gli antipodi della guerra spirituale oggi sono rappresentati dalle guerre
sedicenti sante in quanto combattute in nome di Dio: Dio ne è l'assoluta
maschera e alibi. La loro unica verità è il nulla di ogni assoluto, l'assoluto
Nulla.
«La felicità è un'astrattezza; la felicità non esiste,
semplicemente»; «l'opposto della felicità non è il dolore (...) ma la
gioia"; "la forza è la capacità di essere noi la gioia degli altri»[1].
La felicità, in sostanza, sarebbe costituita da tentativi di fuggire il dolore,
per quanto alti; e la gioia dalla metanoia e trasfigurazione delle sofferenze,
interamente consumata nell'amore del prossimo. Quanto meno, siamo di fronte a
un esempio fortemente significativo di accezioni di felicità e di gioia che ben
di rado possono riconoscersi, nei medesimi termini, nell'oceano di riflessioni
e trattazioni sulla felicità che possiamo trovare nei testi delle maggiori
civiltà.
La minima riflessione evidenzia che la felicità, comunque
intesa, è, come nessun altro, l'obiettivo fondamentale di ogni persona, in ogni
suo atto; e dunque, per quanto implicitamente, è il più profondo sostrato anche
di ogni suo riflettere e comunicare. In questo senso amplissimo è appropriato
usare come sinonimi felicità e amore. Anche nel senso in cui li usano Caterina
da Siena e Rosmini. L'uomo è «creato per amore», «non è fatto d'altro che
d'amore, secondo l'anima e secondo il corpo", scrive Caterina (lettera
196). E Rosmini, nella Teosofia (n. 1032), conferma la tesi che aveva
affacciato, non ancora trentenne, nel Saggio sopra la felicità e nella Eudemonologia.
L'essenza della vita – queste, in sintesi, le sue tesi – è sentimento e lotta
contro tutto ciò che tende a diminuire o a impedire il piacere o a conseguirlo
perfettamente: la vita diretta tende ad unire princìpi e termini, l'unione dei,
quali. è appunto il piacere; la vita di riflessione tende a conoscere e godere
l'unione dei princìpi e dei termini attraverso la coscienza del piacere, la
quale è appagamento e compimento della felicità. Il suo ultimo fine, la sua
perfezione, è la beatitudine. Se la persona umana non trae la felicità da Dio,
ne resta radicalmente privo; anzi, per giunta, moltiplica sofferenze e
infelicità.
Se interroghiamo chiunque, oggi, su felicità,
piacere e benessere, credo che del tutto eccezionalmente si riconoscerebbe nei
due esempi che ho portato e che propongo come sommi; e quasi che il secondo sia
in sostanza una esplicitazione del primo. Per lo più, invece, oggi dovremmo
prendere atto di distanze forse grandissime, abissali, da tali esempi. E se,
d'altro lato, li confrontiamo con l'immane percorso storico dei significati di
felicità e piacere, dunque anche con l'uso linguistico della miriade dei
termini che possiamo concepire come aggregati intorno al loro centro, ritengo
che ritroveremmo quelle distanze, e che scopriremmo una molteplicità di
distanze ulteriori.
Non di rado, un termine usato in posizione cardinale
da parte di un determinato autore può essere il medesimo usato nella medesima
posizione da altro autore magari storicamente lontano, ma con significati più o
meno distanti. Senza questo tipo di chiarificazione è tanto più arduo ogni
fondato orientarsi sui fondamenti di tali problemi; la cui immane
determinazione conferma anche almeno pari estensione dell'infelicità, ossia
dell'assenza e lontananza della felicità: tanto più significativa quanto più
pienamente si riconosca che la vita umana è, in quanto tale, e perciò comunque,
ricerca della felicità, in quanto questa corrisponde al suo tendere al
compimento perfetto. In questo senso, le posizioni in assoluto più superficiali
sono quelle scettiche: in modo affatto equivalente, tutte le forme di
pessimismo quanto tutte le forme di ottimismo. Infatti si limitano a
considerare il classico bicchiere come non mai colmo, oppure come non ancora
colmo: senza con ciò contribuire affatto alla comprensione delle dinamiche
della sua funzione; cioè, fuori d'immagine, senza il minimo progresso
nell'intelligenza del problema in rapporto al fine della persona.
Sta infatti in relazione determinante con la
concezione della persona il criterio di confronto e valutazione delle
innumerevoli considerazioni sul tema, così nel passato come nell'oggi. Il
qualsiasi sociologo ci dirà in proposito: se vi serve, vi presento una lista
delle documentate determinazioni del problema; ma non so dirvi se vi serva, né
come possa servirvi, al di là della considerazione di elementi comuni
estraibili dalla maggioranza delle persone che si riconosca in alcune piuttosto
che in altre determinazioni; in modo che si possano identificare la
"normalità" della persona e la "normatività" delle società
con le determinazioni del problema in cui appunto la maggioranza si riconosca.
Questa considerazione, fra l'altro, ci consente di formulare l'ipotesi,
tutt'altro che astratta, anzi anche troppo attuale, che quello che oggi
consideriamo reato o delitto, magari come frutto o espressione della società
stessa, dei suoi diversi raggruppamenti, sino ai "branchi" –
espressione che tende a sostituire quella di raggruppamenti, affiancandosi a
più vecchi termini, ad ampia gamma conformista, quali cricca, banda,
consorteria, clan, lobby ecc., non dopodomani, ma domani, la maggioranza lo
consideri qualcosa come una “festa di gruppo”, o come socializzazione
liberatoria, o felicità ludica, e via dicendo. Come minimo, tutto ciò sarebbe
conseguenza del fatto che avremo identificato e confuso in modo crescente
felicità e piacere, soggettività e socialità, considerando espressione di
pienezza della nietzscheana "innocenza del divenire" il
"ludico" imperativo assoluto del "come mi va qui e ora",
sia che "vada" anche al gruppo, sia che no: restanto intangibile il
mio isolamento come condizione del mio piacere, in quanto è al suo interno che
posso catturare e padroneggiare gli strumenti di volta in volta consumabili per
il mio piacere.
Una volta di più è facile, di fronte a questo tipo
di esempi, cadere in una illusione diottica storica, dando per scontato che
simili manifestazioni odierne, sia che le consideriamo pessime sia che le
consideriamo progressi, straordinari, siano storicamente nuove. Platone afferma
che il male è immobile. Ma il bene, eterno, è comunque il dinamismo della
storia. Caterina da Siena scrive: «lo voglia o meno, il mondo (...) rende
gloria a Dio» (Dialogo, n. 80).
Anche per evitare, per quanto possibile
quest'illusione di ottica storica – ma d'altro lato anche ogni concezione
deterministica del problema, la quale in effetti lo azzera –, è necessario
gettare qualche sguardo, pur sommario, al passato, con le sue ricchezze per lo
più non immaginate; nel caso arriviamo a immaginarne o intravederne,
l’atteggiamento piú immediato e facile è limitarci a qualche scrollata di
spalle, magari nobilitata dall'alibi del premere delle attualità più urgenti del
problema.
Il buon Varrone, da preenciclopedista, conta ben
ottantotto teorie della felicità: ammesso che il suo risulti un computo ben
costruito, con un criterio analogo quante decine dovremmo forse aggiungerne per
i successivi circa due millenni? Oppure dovremmo toglierne? In ogni caso,
lasciando ora da parte questo tipo di categorizzazione, occorre quanto meno
muovere da alcuni termini essenziali per la comprensione dello sviluppo storico
del problema. Mi limito ad alcuni principali. È noto che edoné significa
principalmente piacere sensibile; ma in Platone è usato anche nel senso di
godimento del bene, del vero, del bello; e Aristotele lo connette all'esercizio
delle virtù. Invece nell'uso biblico equivale alla realtà che si oppone a Dio
ed è nemica dell'uomo stesso, riducendolo a guerra fra passioni. Eudaimonia
si riferisce essenzialmente alla felice sorte di un uomo: phronesis è la
saggezza come prudenza di vita, il cui frutto è l’eirene, ossia la pace
come tranquillità. E makarios designa lo stato di. beatitudine degli
déi, ma anche quello degli uomini nella vita ultraterrena in quanto priva di
tutte le traversie delle quali quella terrena non va esente. Nella tradizione
biblica, makarios è colui che è beato per pienezza di vita, in quanto
benedetto da Dio. Se chairo nel greco classico si riferisce ad una
soddisfazione tutta umana e ordinaria, nel greco biblico ha significati
straordinariamente più ricchi, riferendosi alla pienezza della gioia umana –
anche nella sofferenza – in quanto è riconoscenza a Dio: significato che tanto
più si illumina ed eleva nei più noti termini charisma, eucharisteo
ed eucharistia.
Se per Democrito la felicità è l'equilibrio fra
difetti ed eccessi, e per Aristippo è la somma dei piaceri, presenti, passati e
possibili, per Epicuro sarà frutto del giudizio sulla natura dei beni
conseguibili: naturali e necessari, naturali e non necessari, e non naturali e
non necessari. La grande saggezza umana che traluce in questi soli tre esempi
per lo più si colora di toni propri di amare esperienze, elevate a
insegnamenti. anche proverbiali, nei tragici e negli storici greci. Due soli
esempi. Sofocle nell'Aiace (v. 550): «la vita più dolce sta nel non
avere alcun pensiero». Ed Erodoto, riferendosi a Creso: «prima che uno sia
morto non chiamiamolo felice, ma fortunato». Ma è ben noto che, anche in
rapporto a tali problemi, Platone e Aristotele restano i pensatori più ricchi e
storicamente fecondi. più ricco il primo e più storicamente presente il
secondo. Infatti per Platone la felicità umana si attua nella misura della
tensione al Bene in sé, sino al possesso della giustizia, della bellezza e
dell'armonia, o temperanza (Gorgia, 508b e Conv., 202c).
Aristotele nell'Etica nicomachea (I, 4) conclude invece che è vano
ricercare il Bene assoluto, così come vano è parlare di beatitudine dopo la
morte.
Ma proprio entro tale orizzontalizzazione del
problema, espressione massima del naturalismo ellenico, Aristotele articola
quest'ordine di argomenti in termini che si proietteranno in gran parte sino
all'oggi, e non solo per la mediazione di Tommaso. È noto infatti, che per
Aristotele è felice chi possiede le tre specie di beni: quelli esterni, quelli
del corpo e quelli dell'anima (Et. nic., 1153 b 17) I primi, che si
possono conseguire anche per fortuna, sono utili come mezzi; ma, oltre questa
loro funzione, «diventano dannosi o inutili»; mentre invece i beni dell'anima
«tanto più sono abbondanti, tanto più sono utili» (Pol., VII, 2, 1323 b
8). I beni dell'anima costituiscono la piena felicità, ma in quanto essa è
«propria degli uomini indipendenti» (Et. eud., VII, 2, 1238 a 12), ossia
è frutto unicamente del perseguimento non di ciò che è semplicemente piacevole,
ma delle virtù, di cui la più nobile e alta è quella propria dell'intelligenza
contemplativa, la pienezza della quale è la beatitudine. La definizione
agostiniana della beatitudine come «gaudium de veritate» (De vita beata,
35), nonché quella tommasiana della felicità propria della perfezione dell'uomo
come bene perfetto di natura intellettuale, che ne conseguirebbe; paiono a
tutta prima forme di aristotelismo. In realtà, specie in Agostino, e, tramite
Agostino e Pseudo‑Dionigi, il cosiddetto intellettualismo ellenico, ricco
anche dei percorsi platonici, si compie in modo essenziale nella dimensione
cristiana della caritas, come amore veritativo, intelligenza d'amore,
non senza incastonature dei motivi plotiniani connessi al culminare della
felicità, che la vita stessa è, nell'unione estatica con Dio, al di sopra di
ogni vita bene beatitudine.
Ida, attraverso lo stoicismo, specie quello tardo e
alto di Seneca, la componente essenziale della concezione aristotelica, ossia
l'autonomizzazione e immanentizzazione della felicità, riassume un ruolo
primario, se pure venato di un qualche sapiente scetticismo. Persuaso che non
si può insegnare la felicità, perché il volere non si impara, nelle Lettere
a Lucilio Seneca propende per una via di raccolto ritiro, fuori della quale
nessuna forma di felicità è per lui conseguibile: «non c'è cosa che giovi tanto
quanto lo starsene quieti, parlando il meno possibile con gli altri, moltissimo
con se stessi» (XVIII, 105, 6) Uno stile di esistenza che, peraltro, si fonderà
con quello proprio del monachesimo che – dopo un periodo non ampio, ma
essenziale in quanto contrassegnato dalla revolutio cristiana – fiorirà
a partire dai Padri del deserto e da Agostino e da Benedetto.
È fuor di dubbio
che il successivo percorso storico del problema è segnato costruttivamente in
modo fondamentale da Tommaso: la modernità e la contemporaneità, in questo
senso, sono costituite di decostruzioni o dissoluzioni o capovolgimenti della
sua posizione; proprio perché in essa si traduce e conferma nel modo più ricco
e concreto, ossia anche sul piano dell'etica e della politica, la concezione
della natura umana come fondata nell'oggettività metafisica e nel principio di
creazione. Soltanto Rosmini, in pienezza teoretica, si porrà controcorrente,
avendo attraversato con assoluta e costruttiva attenzione storica e teoretica
la modernità, sino al negativo culmine hegeliano, e perciò ritessendo
grandiosamente tutte le fila già sconvolte e frammentate, sul fondamento della
dispiegata verità metafisica della persona; riconoscendovi fra l'altro i
princìpi della fondamentale preziosa e integrativa continuità teoretica fra la
concezione ellenica e il pensiero cristiano.
Il naturale desiderio di Dio e dell'immortalità
supportano le note tesi tommasiane nei termini del fine costitutivo della
persona come il radicale dinamismo della sua aspirazione alla felicità e come
sua culminazione nell'atto del suo conseguimento soprannaturale. A proposito
della felicità eterna, sottolineo, anche come esempio eccelso della concretezza
ed esistenzialità di quello che si presume essere l'astrattissimo Tommaso, una
considerazione della Summa, che può sembrare quasi parentetica, e non so
quanto sia valorizzata dai vari tomisti e neotomismi. Scrive Tommaso (I‑II,
q. 4, a. 5 ad 4m): dopo la morte dell'uomo, «l’anima separata dal corpo è come
frenata nel suo pieno impulso e tendenza verso la visione dell'essenza divina,
perché desidera godere Dio in modo che questa fruizione si estenda (derivetur)
al corpo per ridondanza, per quanto esso ne è capace». Altri saprà ben
commentare il passo. Io mi limito, qui, a sottolineare che tale prospettiva si
compie attraverso la concezione rosminiana dell'appagamento. Ma anzitutto trova
un riscontro straordinario, a sua volta non so quanto ricordato, nel passo del Dialogo
(n. 41)[2]
nel quale Caterina da Siena scrive: «I beati hanno anche il desiderio di
rientrare in possesso di quella loro dote che è il corpo; ma questo desiderio
non li affligge per il fatto che attualmente ne sono privi, anzi ne godono per
la certezza che esso sarà pienamente soddisfatto». E poco prima aveva scritto
che i beati «godono di una particolare partecipazione con coloro che nel mondo
amarono di amore singolare»; «non hanno perduto questo amore: anzi lo
conservano, e reciprocamente ne partecipano più strettamente e con abbondanza».
Una affermazione che trova un ulteriore straordinario riscontro in Rosmini[3].
Ma questo
ricchissimo percorso nella modernità continua soltanto sotterraneamente:
soprattutto nei grandi mistici, i quali in sostanza restano gli unici fruitori
e talvolta anche teorizzatori della felicità in tutti i suoi gradi e in tutte
le sue forme. In superficie cresce invece la tendenza a ridurre il problema in
termini o edonistici o utilitaristici: dalla concezione di un Telesio che
identifica il piacere con ciò che favorisce la conservazione di un organismo; di
un Hobbes che lo riduce ai movimenti giovevoli al corpo; di un Hume che assume
la felicità in termini di sistema dei piaceri. Kant incrina in modo
radicalmente scettico, considerandolo il più "critico", l'assunzione
del problema, in quanto lo arena nei termini della inattingibilità della
felicità. In questo senso, sembra si limiti ad essere un sofisticato
teorizzatore di quanto pensavano i moralisti dell'illuminismo, come un
Chamfort, per il quale la felicità «è difficilissimo trovarla in noi e impossibile
trovarla altrove». Perciò, successivamente, pulsioni utilitaristiche ed
edonistiche, due facce del medesimo scetticismo, si sono scatenate fino ad
occupare l'intero campo, a livello di pensiero e di sentire comune, sino
all'oggi. Per cui l'oggi, là dove riconosca una qualche consistenza al problema
stesso della felicità, non limitandosi a ridurlo totalmente a livello di
prassi, si riconosce essenzialmente nella negativa concezione neopagana di
Schopenhauer della felicità come assenza di dolore, e, insieme, in modo
necessario e contraddittorio, in quella nietzscheana che la colloca nella
momentanea «sensazione di accrescimento di potenza»: il visibilio degli
accoppiamenti di sensazioni, entro i quali ciò che si considerava aberrazione
diviene la normalità fino alla norma –
da droghe come dalla qualsiasi «confricazione» sino a quelle che determinano
assassinii ed omicidii – «oltreumani».
Ha comunque valore categoriale distinguere tra
felicità che consegue a nostre intenzionalità, e felicità che consegue ad alcunché
di estraneo a nostre intenzionalità e che perciò possiamo assumere, mediante
volizioni, oppure possiamo non assumere o respingere. Quanto al secondo caso,
mi riferisco in particolare ai cosiddetti beni di fortuna e di salute.
Assumerli in positivo genera, comunque, forme e gradi che, per quanto rilevanti
ed ampi, non esauriscono la capacità umana di felicità: potremo chiamarli
godimento, soddisfazione, contentezza, allegria, spensieratezza, tranquillità,
benessere ecc. Nel loro complesso si dimostrano imperniati su beni sensibili e
dunque generanti piaceri – pertanto per sé, di durata e intensità incerta e
indipendente dalla nostra volontà –, piuttosto che generanti felicità. La
felicità è comunque necessariamente connessa con gli atti della nostra volontà
libera: sino all'estremo della felicità piena vissuta nelle sofferenze più
inaudite. Il che intanto ne esclude l'accezione negativa di assenza di
dolore o anche semplicemente di dis‑piacere. E, al contrario, include
tutte le forme appena determinate, e innumerevoli altre, in tutti i loro gradi,
fino al massimo. In questo senso positivo, la felicità è la manifestazione del
compimento, da parte della persona, del proprio fine; dunque in modo
crescentemente stabile: dal conseguimento dei beni corporei, quanto meno quelli
necessari al bene che la vita stessa è, a quello dei beni intellettivi e dei
beni morali; e tutto ciò entro il Bene‑Vero‑Bello assoluto, che è
la ragione ultima di tutti i fini positivi. Intelligenza e libertà, i sommi
beni costitutivi della persona nella sua interezza, in quanto ordinano i propri
atti al fine assoluto, cioè alla perfezione della persona medesima, attuano,
nello stesso percorso di compimento, le diverse forme e gradi di ciò che nel
loro insieme chiamiamo, in senso proprio, felicità, nella vita terrena, e,
oltre essa, culminantemente, beatitudine. La consapevolezza del compimento,
anche nel suo percorso, Rosmini la denomina appagamento.
L'ordinarsi al fine proprio è la strada regia –
senza alternative – al compimento della persona e, di conseguenza, della
felicità: il percorso della "porta stretta" che, solo, appaga
l'universale desiderio di felicità, di conoscenza, di amore, di libertà, di
immortalità. Nonché della condivisione e dunque della diffusione dei beni che
ne conseguono, come perfezione della societarietà ontologica della persona. Da
qui l'altra distinzione fondamentale: tra la felicità essenziale e i suoi
surrogati; i quali, quanto più si determinano come piaceri, tanto più, nella
loro inessenzialità e parzialità, possono generare soltanto forme di
infelicità, sino a tutte le forme – in particolare quello occulte o comunque
non palesi – di omicidio e di suicidio.
(*) Texte en grande partie republié in Élogio
dell’ipocrisia, Marsilio, 2009.
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