Revue de la B.P.C. THÈMES II/2016
http://www.philosophiedudroit.org/
Mise en ligne le 7
juillet 2016
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Mind-Body
Problem :
dalla
critica al monismo ad una possibile soluzione linguistica
par
Giancarlo Ianulardo et Aldo Stella *
Abstract
The debate
on «monism and dualism» plays a crucial role in Philosophy
of Mind. In this article, we advance some
criticisms to the «materialistic monism» conception, starting from «identitist
theories», which identify mind with brain, but not the vice versa. After
showing that it is impossible to think the concept of identity as if it could
stand independently from the concept of relation, which cannot be thought of as
medium between extremes but as
the act of their self-referring,
we clarify the nature of mind and brain: they are not res, but signs or, more precisely, linguistic
universes. In this way, the problem of their
relationship becomes the problem of the translation of the language of the one
into the language of the other, and vice versa.
Title :
Mind-Body Problem: from the critique to monism to a possible linguistic
solution
Keywords
: Monism, Dualism,
Concept of Relation, Translation, Language
Riassunto
Il dibattito su «monismo e dualismo» riveste
un ruolo fondamentale in quell’ambito di ricerca che viene definito Filosofia della mente. In questo
articolo, vengono mossi rilievi critici alla concezione del «monismo
materialistico», cominciando dalle «teorie identitiste», che identificano la
mente con il cervello, ma non viceversa. Dopo avere mostrato che è impossibile
pensare il concetto di identità a prescindere dal concetto di relazione, la
quale però non va intesa come medio tra estremi, bensì come l’atto del loro riferirsi reciproco, si perviene a
cogliere la natura di mente e cervello: essi non sono res, ma segni o, più precisamente, universi linguistici. In tal modo, il problema del loro rapporto
diventa il problema della traduzione del linguaggio dell’una nel linguaggio dell’altro, e
viceversa.
1. Introduzione
Il
dibattito su «monismo e dualismo» riveste un ruolo fondamentale in quell’ambito
di ricerca che viene definito Filosofia della mente.
Ci si chiede, infatti, quale sia lo statuto ontologico degli stati mentali,
ossia se essi debbano venire pensati come qualcosa di esistente accanto agli
stati cerebrali, e distinti da essi, oppure se esistano solo gli stati
cerebrali. In questo secondo caso, si parla di «monismo» e, in genere, si
aggiunge l’aggettivo «materialistico»: tale concezione, che si è andata facendo
largo in Filosofia
della mente, sostiene che esiste un solo
tipo di sostanza, la materia. In tal modo, si viene a configurare un riduzionismo radicale, definito anche eliminativistico, dal momento che gli stati mentali vengono appunto
eliminati.
Ovviamente,
se ci si colloca in una prospettiva monista, il Mind-Body Problem trova una sua immediata soluzione: uno dei due termini, e
cioè la mente, viene eliminato, così che viene eo ipso eliminato il
problema del rapporto. Ebbene, il nostro intendimento è innanzi tutto quello di
indicare, in forma molto essenziale, come la prospettiva monista si sia andata
inizialmente configurando e come si sia andata affermando nella ricerca
contemporanea condotta sulla mente/cervello.
A
tale prospettiva, e questo sarà il secondo passaggio, muoveremo delle obiezioni
di carattere essenzialmente teoretico: cercheremo, cioè, di dimostrare come,
allorché si parla di «identità» – per affermare che gli stati mentali «si
identificano» con quelli cerebrali e si risolvono interamente in essi –, si
faccia comunque riferimento al concetto di «relazione». Da un lato, quindi, il
monismo viene affermato in forza della negazione della dualità; dall’altro, la
dualità costituisce il prerequisito del concetto di «relazione», così che
nell’un caso come nell’altro la dualità non può venire effettivamente eliminata
e il monismo non può venire proposto come soluzione convincente.
Infine,
cercheremo di mostrare come mente e corpo non vadano intesi quali termini di
uno statico costrutto relazionale, ma come il dinamico riferirsi dell’uno all’altro. Per tale riferirsi, mente e corpo
possono venire pensati come segni o, più precisamente, come linguaggi, così che il problema del loro rapporto potrebbe risolversi
nel problema della traduzione di un linguaggio in un altro linguaggio.
2. Il
monismo materialistico
Il Mind-Body Problem, come ricorda Moravia,
ha un incipit, e perfino un padre, abbastanza precisi. Il padre è […]
Feigl, il ben noto esponente del neo-positivismo euro-americano. L’incipit può essere indicato nel 1934 (data del primo articolo di
Feigl sul problema delle relazioni tra fisico e mentale) ovvero, come
preferiscono alcuni, il 1958 (data del saggio sistematico dedicato da Feigl al
medesimo problema).
Al
problema indicato si è cercato di dare, nel corso degli ultimi anni, una soluzione
radicale, consistente nel fatto che è stata rifiutata ogni forma di dualismo,
così che è stata negata la stessa relazione tra mente e corpo. La maggioranza
degli studiosi che si occupano di Filosofia della mente
non ammette, infatti, l’esistenza di una realtà che sia autonoma e irriducibile
a quella fisico-materiale e cioè alla corporeità. Come afferma Lewis, «noi
materialisti dobbiamo accettare la teoria dell’identità come un dato di fatto –
ogni esperienza (mentale) è identica a qualche stato fisico».
La
forma attraverso la quale si è presentata inizialmente la concezione monista
può venire ravvisata, secondo quanto anticipato dalle parole di Lewis, nelle
«teorie identitiste», cioè in quelle teorie che identificano stati mentali e
stati cerebrali. Uno dei primi sostenitori della teoria identitista è stato
proprio Herbert Feigl. Nella sua opera più importante, The ‘mental’ and
the ‘physical’, Feigl sostiene che la
scienza è sostanzialmente una, sia dal punto di vista metodologico sia per il
suo carattere nomotetico. Essa, inoltre, ha valenza empirico-sensibile, perché
si fonda sull’osservazione, e il suo compito è quello di ridurre i fatti
osservati a determinazioni fisiche o suscettibili di indagine fisica. Anche i significati e le intenzioni, pertanto,
vengono interpretati in senso fisicalista, così che l’attacco al dualismo è, in
questo caso, di tipo riduzionistico ed eliminativistico.
Feigl
porta avanti, dunque, un programma di identificazione del mentale con il
cerebrale in una prospettiva di monismo materialistico,
ossia con un significativo impegno ontologico. Egli, insomma, non si accontenta
di far valere il punto di vista secondo il quale l’universo linguistico con cui
viene descritto il mentale può venire ridotto a quello con cui viene descritto
il fisco-cerebrale, ma afferma la loro identità ontologica, cioè il loro
coincidere sul piano della realtà effettiva. Le iniziali perplessità, che egli
aveva espresso su un materialismo radicale, vengono così superate specie nel Postscript, aggiunto in Appendice alla
ripubblicazione dell’opera indicata.
La
scuola australiana riprende con forza la prospettiva delineata da Feigl, in
particolare con Ullin T. Place, John J.C. Smart e David M. Armstrong. Place
sostiene che è un’ipotesi scientifica assolutamente ragionevole quella di
identificare la coscienza con un determinato processo cerebrale. Il concetto di
identità, inoltre, viene specificato da Place, il quale riflette su
una possibile obiezione dualista, legata al fatto che, nell’affermare
l’identità di mente e cervello, si fa uso di due parole distinte. In tal modo,
sarebbe possibile supporre l’esistenza di due cose distinte anche sul piano
della realtà. In Is consciousness a brain process?,
egli sostiene che non è possibile derivare da
una differenza logica una differenza ontologica o, se si preferisce, da una
indipendenza logica una indipendenza ontologica, perché, se lo si facesse, si
cadrebbe in quella che egli definisce una «fallacia fenomenologica».
Quest’ultima consisterebbe, sempre secondo Place, nell’attribuire ai pensieri e
alle sensazioni un ruolo primario rispetto alle «cose reali» e, in sostanza,
altro non sarebbe che una tesi idealistica. La tesi idealistica, di contro,
deve venire capovolta e lo si può fare effettivamente soltanto sostenendo una
tesi materialistica, che finisce per negare uno dei termini della relazione: la
mente.
Smart
non dice soltanto che i processi coscienti sono processi cerebrali; egli
aggiunge che non sono altro che
processi cerebrali. Armstrong, infine, afferma che soltanto una concezione
materialistica, cioè naturalistica e fisicalistica in senso radicale, coglie
effettivamente la realtà oggettiva, dunque è una concezione veramente
realistica. Le cose, infatti, vengono prima delle parole e dei concetti e sono
totalmente indipendenti da essi. La mente, inoltre, deve venire intesa come un
puro oggetto fisico, agente esattamente secondo le stesse leggi delle altre
cose fisiche, come egli afferma in The nature of mind and other essays.
La
teoria identitista viene oggi riproposta, in una forma più o meno aggiornata,
da molti di coloro che intendono ridurre il mentale al cerebrale. Non è compito
del presente studio riportare le molteplici posizioni che oggi vengono
sostenute dai ricercatori. Ci accontentiamo di ricordare che, pur non basandosi
esplicitamente su una teoria identitista, Daniel C. Dennett la fa
implicitamente valere allorché sostiene con forza la necessità di sposare la
tesi del monismo
materialistico. Muovendosi all’interno di
quella prospettiva che viene definita funzionalismo computazionale, egli specifica assai bene le ragioni che, a suo giudizio,
non possono non indurre tanto lo scienziato quanto il filosofo, che si occupano
della mente/cervello, ad abbandonare ogni dualismo, per approdare ad un monismo
che riconosca come reale solo ciò che è fisico e, dunque, materiale.
In
effetti, fino ad allora la tesi proposta dal cognitivismo classico o
simbolico, volta a proporre l’analogia mente/computer,
era stata considerata una tesi dualista, stante la differenza che essa
manteneva tra l’hardware, rappresentato dal cervello, e la mente, che veniva
assimilata ad un insieme di software, ossia ad un insieme di programmi che
istruirebbero i processi computazionali della mente. Non a caso, si parlava di
«carattere astratto delle computazioni» o di «implementabilità multipla»,
proprio per indicare che lo stesso programma poteva implementare sia un
hardware elettronico sia un hardware biologico: il cervello, appunto.
Dennett,
invece, intende bandire ogni forma di dualismo e, per farlo, si appropria della
concezione di Gilbert Ryle. Nel suo libro The concept of mind, Ryle indica l’opportunità di prendere una netta distanza
da ogni assunzione della mente in senso sostanzialistico e di considerare il
mentale su un piano esclusivamente linguistico-categoriale. A Ryle si riferisce
espressamente Dennett, quando si adopera a mostrare «perché il dualismo è in
disgrazia».
Così
scrive Dennett:
L’idea
che la mente sia un’entità così separata dal cervello e composta non da materia
ordinaria, ma da qualche altra sostanza speciale, viene usualmente chiamata dualismo. Oggigiorno esso gode, meritatamente, di una cattiva
reputazione […]. Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò
che egli chiamava il “dogma cartesiano dello spettro nella macchina”, i
dualisti sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e
sostenuta, è il materialismo: esiste
solo un tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza
fisica di cui si occupano la fisica, la chimica e la fisiologia – e la mente è
in un certo senso niente altro che un fenomeno fisico. In breve, la mente è il
cervello.
Come
si evince dal passo di Dennett, la concezione sostenuta, e che oggi sembra
prevalere tra coloro che si occupano di mente, è il monismo materialistico:
esiste un’unica sostanza, la materia, e la realtà è materiale, nel senso che
possono venire considerati come effettivamente reali solo gli enti che hanno
consistenza fisica. Il bersaglio è la concezione dualista, che viene fatta
risalire a Cartesio e al suo famoso dualismo di res cogitans e res extensa.
Precisamente
sulla distinzione proposta da Cartesio si incentrano le critiche di Antonio
Damasio, che titola una delle sue opere più famose proprio Descartes’ Error. Tale opera è volta a confutare l’idea che possa darsi una
sostanza non materiale. L’obiezione che viene rivolta ai dualisti è sintetizzata molto bene da
Dennett:
L’obiezione
usuale al dualismo era ben conosciuta dallo stesso Cartesio nel XVII secolo e
sembra giusto affermare che né lui né i successivi dualisti siano mai riusciti
a superarla convincentemente. Benché siano delle entità o sostanze distinte, la
mente e il cervello devono tuttavia interagire […]. Poiché non abbiamo (per
ora) la minima idea delle proprietà della sostanza mentale, non possiamo
neanche immaginare (per ora) come possa essere influenzata dai processi fisici
che provengono in qualche modo dal cervello, quindi ignoriamo per il momento
questi segnali ascendenti e concentriamoci su quelli di ritorno, quelli che
vanno dalla mente al cervello. Questi, ex hypothesi, non sono fisici […]. Nessuna energia o massa fisica è associata ad essi.
Come riescono, allora, ad influenzare il funzionamento delle cellule cerebrali
ad esse collegate?.
La
critica al dualismo si è così tradotta nell’affermazione di una concezione
monista e, poiché solo della materia è parso che si desse indiscutibile
certezza, il monismo è diventato materialistico. Tale concezione configura un
radicale riduzionismo e con esso deve fare i conti chi decida di occuparsi oggi
di Filosofia
della mente. Noi non lo faremo e non
prenderemo in esame le singole argomentazioni dei sostenitori di tale
concezione, ma cercheremo di individuarne i tratti fondamentali, onde muovere
ad essi le nostre obiezioni critiche.
Tuttavia,
per mostrare adeguatamente il carattere radicale della concezione indicata, ci
permettiamo di ricordare la posizione assunta da Patricia S. Churchland, la
quale ha illustrato in forma paradigmatica la necessità di approdare ad una
risoluzione-dissoluzione della mente nel cervello. Più precisamente e
recentemente, ella ha affermato che l’io si identifica con il cervello e si
risolve interamente in esso. Una delle sue ultime opere, infatti, si intitola Touching a Nerve. The Self as
Brain ed
è stata tradotta in italiano L’io come
cervello. In un passo di
tale opera, la Churchland scrive:
Non c’è una cosa separata, io, che
esiste in modo distinto dal mio cervello. Il
mio cervello fa ciò che fanno i cervelli e non c’è un io distinto
che legge le mappe del mio cervello. […] il mio cervello mappa il mio mondo
interno e quello esterno senza che vi sia un io
distinto che legga quelle mappe.
3. Alcune obiezioni che potrebbero venire
mosse al monismo materialistico
Per
svolgere una critica del monismo materialistico, prendiamo avvio dal concetto
di «identità», dal momento che le teorie identitiste proprio a tale concetto
fanno riferimento. Riteniamo che possa essere utile risalire fino ad Aristotele
per attingere al V libro della Metafisica la definizione che lo Stagirita fornisce del concetto di
«identità»:
L’identità
è una unità
d’essere o di una molteplicità di cose,
oppure di una sola cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio
come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa
viene considerata appunto come due cose.
L’identità
esprime, quindi, o che una cosa è identica a un’altra (A id.
B, A è B) o che una cosa è identica a se stessa (A id. A, A è A). In entrambi i casi, deve venire messo in
evidenza questo punto: l’identità si costituisce come identità tra due termini (di due termini). Ciò comporta che l’identità si fonda sulla relazione, così
che la differenza (non-A) non può non venire richiesta. Il nodo
teoretico è che la differenza viene bensì richiesta, ma
proprio per venire negata. Solo in virtù di
questa negazione risulta la medesimezza sostanziale
dei due termini che la
forma, invece, presenta come distinti.
Per
affermare lo idem, o l’unità, si deve
insomma comunque presupporre la differenza, così che, anche quando si afferma l’identità della cosa
con se stessa, si è costretti a sdoppiarla, a reduplicarla, ossia a introdurre
una relazione nel suo essere, onde inscrivere la molteplicità all’interno
dell’unità. Per questa ragione Aristotele afferma che una cosa viene considerata come due cose.
I
sostenitori del monismo materialistico affermano che la realtà di mente e corpo
è una soltanto e si risolve, dal punto di vista ontologico, nella materia che
connota il corpo o, se si preferisce, nel cervello. A loro giudizio, infatti,
la differenza apparterrebbe solo all’ambito fenomenologico. Ciò che abbiamo
voluto dimostrare, invece, è che senza la differenza non si pone l’identità,
così che esse non possono non collocarsi al medesimo livello: si può affermare che mente e corpo sono un medesimo (idem) solo negando la loro differenza, che viene di conseguenza postulata.
Facciamo
notare, ma in forma solo cursoria, che anche nell’ambito della logica formale,
tanto nel calcolo
funzionale di primo ordine e, in particolare,
nel calcolo funzionale di primo ordine con uguaglianza, quanto nei calcoli funzionali
di secondo ordine nonché nell’algebra delle
relazioni, l’identità viene intesa come uguaglianza, la quale è una costante funzionale diadica e viene
espressa nella forma di una relazione: xIy.
Ammettiamo, non di meno, che si intenda
ridurre il mentale al cerebrale prescindendo dalle teorie identitiste e dal
concetto di identità che esse postulano. Ebbene, anche in questo caso non si
potrà evitare di rilevare che, se si intende appunto ridurre il mentale al somatico (cerebrale), per procedere alla
riduzione si deve comunque muovere dall’assunto che si diano due realtà
diverse. Se non fossero due realtà e non fossero diverse, infatti, non si
parlerebbe di riduzione dell’una
all’altra. Ebbene, ciò che intendiamo sottolineare è che in tal modo l’esito della riduzione finisce proprio per negare il presupposto che pone in essere la stessa riduzione.
Per
evitare la contraddizione, allora, si dovrebbe ammettere che il livello in cui
si pone la differenza è distinto dal livello in cui si pone l’identità: la
differenza di mente e corpo è fenomenologica; ontologicamente, invece, si pone solo il corpo (la materia), così che la
riduzione altro non sarebbe che l’attingimento dell’autentica realtà. Se non
che, se così fosse, quale sarebbe, allora, la ragione
del presentarsi di qualcosa che ontologicamente non è? Se il mentale non ha
consistenza ontologica, per quale ragione esso si presenta
come se fosse?
Ammettiamo
che si presentino fenomeni che noi, erroneamente, definiamo «mentali». Se è
solo un nostro errore linguistico, perché mantenere tale parola? Evidentemente,
un qualche significato che la specifica dovrà
pur esserci; un significato, inoltre, che non può non essere diverso da quello
indicato dalla parola «somatico». Da cosa nascerebbe, ci si chiede, la
necessità di tenere distinti due concetti, usando due parole diverse per
indicarli, se solo uno di essi avesse un corrispettivo nella realtà?
Inoltre,
se si fa valere la differenza tra ambito fenomenologico e ambito
ontologico, non si ammette forse una forma di dualismo? Se «mente» fosse un
concetto valido solo da un punto di vista intensionale, ma non dal punto di vista estensionale, giacché le
menti non sono enti reali e quindi non possono venire considerate autentici
esemplari della categoria, allora si tratterebbe di un concetto empirico del
tutto particolare, che – per essere ancora più chiari – si traduce in una
parola, mente, che non denota alcunché.
Prescindiamo,
comunque, dai rilievi critici mossi e ammettiamo che ciò che oggi viene
espresso in «termini mentalistici» un giorno, quando la scienza sarà più
matura, potrà venire espresso in «termini fisicalistici». Ammettiamo, insomma,
che si dia effettivamente un’unica sostanza. In questo caso non si potrebbe
eludere la seguente domanda: come è possibile determinare tale sostanza, se
essa è effettivamente unica (da cui monos)? Non si può
dimenticare, infatti, che de-terminare significa de-limitare, ossia
circoscrivere mediante un limite. Ebbene, il punto
è che il limite ripropone non altro che il concetto di relazione, stante le
«due facce» che lo caratterizzano. Si può determinare, dunque, qualcosa come A,
solo perché lo si distingue da non-A, con questa conseguenza: è possibile porre
una qualche identità determinata solo in ragione della relazione alla sua differenza.
Nel
caso del monismo
materialistico, pertanto, ci si trova nella
seguente situazione: se si intende veramente indicare una realtà unica, allora
tale realtà non deve venire determinata. Una realtà unica non può non essere assoluta, cioè ab-soluta, sciolta da
vincoli, da relazioni, e dunque non può non essere indeterminabile. Nel volerla determinare «in senso materiale», non ci si
avvede che la si vincola necessariamente alla sua
differenza: la materia postula, per così dire, la «non-materia», ossia qualcosa
che non sia materiale, proprio per differenziarsene e per identificarsi come
materia.
Il
tema della differenza – che risulta
intrinsecamente vincolato al tema dell’identità – impone,
infine, un’ulteriore considerazione. Ci si chiede: come è possibile
giustificare la differenza in un
contesto di radicale monismo? Anche se i sostenitori della concezione monista
non fanno alcuna difficoltà ad ammettere la molteplicità degli enti, è da
domandarsi, tuttavia, come essi possano legittimare tale molteplicità da un
punto di vista teoretico-concettuale.
In
una concezione autenticamente monista, infatti, non è ammissibile una differenza di
sostanza, giacché il monismo afferma che la
sostanza non può non essere unica. Deve trattarsi, dunque, di una differenza di forma, come accade, ad esempio, agli esseri umani, i quali sono
fatti tutti della stessa materia, ma sono molteplici in virtù della forma che
li specifica. Ma, allora, l’approdo è il seguente: per legittimare la
differenza, il monista deve ammettere almeno un dualismo, quello che distingue
la forma dalla sostanza.
L’esito
delle argomentazioni proposte è che una qualche forma di dualismo deve venire comunque richiesta, se si intende legittimare la concezione monista. Se, di contro, ci si appella a una
presunta evidenza o a un’intuizione che non ha bisogno di legittimazione,
perché si fonda sul senso comune, allora il
discorso cambia: si accetta il monismo, ma senza fornire un’argomentazione autentica che lo
giustifichi.
4. Il dualismo e il concetto di relazione
Il
punto è, a nostro giudizio, intendere adeguatamente il concetto di dualismo. Per tale ragione, è opportuno riflettere sul concetto di relazione, che sta a fondamento del concetto di dualismo.
Quando
si parla di relazione, in genere si intende un costrutto formato da due termini
estremi (A e B) e un nesso (r) che li vincola.
Precisamente per questa ragione si è soliti parlare di costrutto
mono-diadico e tale costrutto viene
espresso nella formula «r (A, B)».
Il
costrutto relazionale svolge indubbiamente una funzione insostituibile, giacché
solo in forza di esso è possibile tessere la trama dell’esperienza che è fatta
di nessi che si dispongono tra le determinazioni. Non di meno, tale costrutto
si è rivelato problematico. La sua problematicità emerge con chiarezza se si
considera che, in quanto la relazione viene pensata come intercorrente tra A e B, essa non può evitare di proporsi come un nuovo
termine: il termine medio. Quest’ultimo, da
un certo punto di vista, unisce A e B, ma, da un altro punto di vista, divide A
da B. Se il quid medium viene
indicato con la lettera C, allora non si può evitare di ammettere che si
vengono a configurare due nuove relazioni, e cioè quella che intercorre tra A e
C e quella che intercorre tra C e B. Allo stesso modo, però, dalle due nuove
relazioni originano due nuovi medi, e così via all’infinito.
Proprio
l’inconcludenza di un regressus in indefinitum
viene evidenziata da Platone nel Parmenide quando, per
bocca dell’Eleate, viene presa in considerazione la relazione che sussiste tra
i modelli ideali e le cose. Aristotele, nella Metafisica,
si riferisce all’argomento del terzo uomo precisamente per
sottolineare il carattere aporetico del concetto
platonico di «partecipazione». A nostro giudizio, ed è proprio su questo
aspetto che intendiamo richiamare l’attenzione del lettore, il carattere
aporetico del concetto di partecipazione è legato
al carattere aporetico del concetto di relazione.
Più
radicalmente, a nostro giudizio la relazione configura non tanto un’aporia, quanto un’antilogia, cioè la conciliazione di
inconciliabili. In effetti, la relazione postula l’identità dei relati (A e B) e
la postula secondo la forma in cui l’identità viene ordinariamente concepita:
tanto A quanto B risultano ciascuno identico con se stesso e per questo l’uno è
differente dall’altro. Che è come dire: A e B sono due
identità, cioè due realtà che esibiscono una propria autonomia e autosufficienza,
tant’è che possono venire assunte l’una a prescindere dall’altra. Se così non
fosse, se ciascuna identità non potesse venire considerata per la sua
autonomia, non potrebbe nemmeno venire codificata e non si potrebbe dire A né
si potrebbe dire B.
Se
non che, due aspetti devono venire messi in luce, perché colpiscono alle
fondamenta il concetto ordinario di relazione. Il primo lo abbiamo già
indicato: ogni identità determinata si pone solo in quanto si relaziona alla
differenza, così che quest’ultima non è estrinseca all’identità. Se, insomma,
si afferma che non-A è essenziale al costituirsi di A (e viceversa), allora ciò
non può non significare che la differenza viene riconosciuta come intrinseca e
costitutiva dell’identità.
La
conclusione cui mette capo il primo aspetto è, pertanto, la seguente: la
relazione non va pensata come intercorrente tra A e B,
ma come immanente
ad A e a B. Se, dunque, si perviene alla
consapevolezza che A e B sono due identità che si pongono solo in
forza del loro inviare l’una all’altra, allora tale invio non può venire
pensato come successivo alla
costituzione dell’essere di A e di B, ma come coincidente con l’essere stesso
di entrambi: A è relazione a B, e viceversa, perché A senza B non
può stare, così che B entra nella costituzione intrinseca di A e la relazione
risulta non un costrutto, ma l’atto del
reciproco riferirsi dei termini.
Quanto
detto viene a configurare il secondo aspetto: se la relazione viene colta nel
suo essere autentico, allora emerge che i termini che la costituiscono non
possono venire ipostatizzati, ma
debbono venire intesi come segni, dal momento che
si costituiscono solo nell’inviare l’uno all’altro. Ovviamente, ciò ha una
estrema rilevanza per intendere adeguatamente la concezione dualista.
Mente
e cervello non possono venire pensati come due res e ciò
per la ragione che non sono dotati di una propria identità, indipendente ed
autonoma. Affermare che si tratta di una autonomia e di una indipendenza solo
relative ci sembra sia ancora insufficiente, se si fa valere una considerazione
autenticamente teoretico-concettuale. Mente e cervello, secondo
l’interpretazione che andiamo proponendo, vengono bensì distinti, ma non si può
dimenticare che tale distinzione appartiene ad una considerazione solo formale, giacché – vogliamo ribadirlo – a rigore sono l’una
l’intrinseco riferirsi all’altro (e viceversa).
Così
come forma e materia (o, se si preferisce, forma e contenuto) sono termini
correlativi, dunque sono co-essenziali,
altrettanto lo sono mente e cervello (corpo). Risulta quindi preclusa la
possibilità di assolutizzare il cervello (la materia), perché è solo in forza
della coscienza (la mente o la forma) che esso viene riconosciuto come cervello
e viene codificato come tale. Né, del resto, può venire assolutizzata la
coscienza (forma), perché essa si pone solo in quanto si riferisce a
determinati contenuti: coscienza di nulla si risolve (dissolve) in
coscienza-nulla.
Precisamente
per le ragioni addotte, non è ipostatizzabile la relazione di mente e cervello:
essa si fonda sull’assunto che si diano due
termini, laddove in effetti la loro realtà è il loro riferirsi. Mente e cervello non sono due res,
ma due
segni che si riferiscono l’un l’altro e
sono soltanto in tale riferimento, così che –
a rigore – il loro fondamento è l’unità.
Con
questa conclusione: a livello teoretico-concettuale, mente e corpo si risolvono
nell’unità del loro riferirsi reciproco, così che la loro verità autentica è
l’atto che li fonda e li costituisce. Di contro, se ci si dispone all’interno
della considerazione formale, che coincide con l’universo del discorso, non si
può evitare di determinare anche la condizione determinante, che pure si
richiede come incondizionata in quanto emergente oltre i condizionati (mente e
corpo), di cui deve costituire il fondamento. L’esito è che tale condizione,
ancorché unitaria, viene descritta nei termini di una sintesi e cioè come relazione mente-corpo.
Non
di meno, la distinzione del fondamento unitario in due componenti – imposta
dalla considerazione formale – non può non accompagnarsi alla consapevolezza
che i termini (mente e corpo, appunto) non possono venire pensati, nemmeno
formalmente, come statici, cioè come due
ipostasi, ma debbono venire colti nel loro essere intrinsecamente dinamici. La loro dinamicità, che è poi la loro vitalità, costituisce infatti la traduzione più efficace, a livello formale, della loro sostanziale unità, giacché intendere la
relazione come atto, e non come medio tra estremi,
impone che ciascun termine venga inteso nel suo riferirsi all’altro termine.
Per questa ragione abbiamo detto che mente e corpo si rivelano dei segni.
V’è,
inoltre, un aspetto ulteriore che domanda di venire considerato. Come abbiamo
visto, ogni identità determinata è tale in virtù di un limite, che pone
l’identico perché lo riferisce al diverso. Ciò comporta che la differenza debba
venire pensata, almeno da un punto di vista teoretico-concettuale, come
intrinseca all’identità e costitutiva di essa. La traduzione formale del valore intrinseco della differenza trova espressione
solo in una identità che non venga più intesa come monolitica,
oltre che inerte, ma come articolata e
strutturata al suo interno.
La
conseguenza di quanto detto è, così, duplice: mente e corpo non soltanto sono segni, ma più precisamente sono segni che si articolano e si
strutturano ciascuno al proprio interno, in modo tale che risulta più corretto
parlare di mente e corpo come di due sistemi di segni o, se
si preferisce, di due universi linguistici.
Per
sintetizzare e ricapitolare: se mente e corpo vengono ipostatizzati, allora si
perde la loro vitalità. Se, invece, si fa valere la loro dinamicità, allora il
corpo (cervello) viene colto come espressione di una realtà che ad esso non si
riduce, ma che mediante esso si manifesta, e la mente come il luogo delle
rappresentazioni, dei significati, delle ragioni e dei valori che nella
manifestazione somatica trovano la loro espressione. In tal modo, lo scambio tra manifestazione somatica e ciò che essa manifesta
risulta continuo e inarrestabile, perché poggia sul rinviarsi reciproco di
mente e corpo: tale atto del rinviarsi reciproco coincide con il loro stesso
essere.
5. Mente e corpo come universi linguistici
Il discorso svolto ha
importantissime ricadute sul Mind-Body
Problem. Se mente e corpo sono metafore –
nel senso del meta-pherein, ossia del portare al di là – e metafore dotate di una specifica articolazione
intrinseca, così che possono venire intesi, più rigorosamente, come due universi linguistici, che prendono forma grazie ad una precisa notazione simbolica che li connota e li specifica, allora è possibile pensare
alla relazione che intercorre tra di essi come una relazione interlinguistica: essi tendono a tradursi di continuo
l’uno nell’altra.
Secondo
il punto di vista che intendiamo esprimere, pertanto, la relazione di mente e
corpo non necessariamente va intesa come relazione causale, secondo la concezione naturalistica e il programma di
naturalizzazione della mente, il quale propone un monismo metodologico in
ragione di un presunto monismo ontologico. Diventa possibile intendere tale
rapporto anche come relazione interlinguistica, giacché il linguaggio del corpo, fatto di processi biologici nonché di
sostanze chimiche e impulsi elettrici, trova continua traduzione nel
linguaggio della mente, fatto di processi cognitivi, che si basano su
rappresentazioni e regole, nonché sul pensiero riflessivo e critico, che
consente l’emergere della coscienza. E, ovviamente, vale anche la reciproca.
Per
argomentare in favore della nostra ipotesi ermeneutica, e cercare di renderla
più chiara, ci sembra che possa essere utile fare una premessa. Si consideri il
rapporto ambiente-organismo. Ebbene, tale rapporto può venire utilizzato per
comprendere meglio lo stesso rapporto mente-corpo, giacché si potrebbe dire
che, in un certo senso, il primo rapporto precede il secondo.
Intendere
il rapporto che il soggetto intrattiene con l’ambiente consente, infatti, di
comprendere il processo comunicativo
che si instaura sul versante esterno del soggetto e ciò può costituire un
ottimo punto di partenza per spiegare ciò che avviene sul versante interno del
soggetto stesso. Secondo la nostra
interpretazione – questo è il punto che ora vogliamo sottolineare con forza –
anche il rapporto con l’ambiente deve venire inteso come un rapporto tra due universi
linguistici, stante il fatto che sia
l’ambiente sia l’organismo si pongono solo nel loro riferirsi reciproco.
Tale
reciproco e mutuo processo comunicativo trova iniziale espressione in una forma di grande interesse: il processo della trasduzione. Mediante quest’ultima, il linguaggio di quelle che vengono
definite «forme esterne», e cioè delle informazioni veicolate dagli stimoli, si
traduce di continuo nel linguaggio delle «forme interne», che sono le forme che
la componente fisica e la componente cognitiva dello stimolo evocano
nell’organismo e nel suo sistema cognitivo.
Per chiarire meglio la nostra
interpretazione, facciamo riferimento al modello di mente che emerge dal
modello cognitivo classico o
simbolico. Tale modello, lo abbiamo anticipato, trova nel concetto di
«informazione» uno dei fondamenti teorici più rilevanti e significativi.
Ricordiamo che l’interpretazione cognitivista del famoso esperimento di Pavlov
pone al centro non tanto lo stimolo fisico, rappresentato dal suono della
campanella, quanto piuttosto l’informazione in esso contenuta. È precisamente l’informazione che acquista per l’animale il
valore di un indice, di un segno,
che attesta l’imminente sopraggiungere del cibo
desiderato. A fronte della fisicità dello stimolo, viene insomma valorizzata
l’informazione, che ha valore cognitivo, in modo tale
che la mente viene equiparata a un complesso e potente elaboratore di
informazioni.
Ebbene,
il concetto di informazione è intrinsecamente vincolato a quello di trasduzione, giacché l’informazione deve innanzi tutto venire recepita
dagli organi sensoriali e tradotta in segnali comprensibili per il sistema di
elaborazione (trasduzione sensoriale)
in modo da essere disponibile per i processi percettivi che interpreteranno
l’informazione in base all’esperienza e alla situazione in cui si verifica la
percezione. La trasduzione, dunque, non è altro che una traduzione e, cioè, la
trasformazione di una forma, che è propria di un’informazione in ingresso, in un’altra forma, che diventa una forma interna al sistema: una rappresentazione.
Di
una traduzione di un linguaggio in un altro linguaggio, pertanto, si tratta e
tale traduzione consente di intendere quella continuità tra esterno e interno,
tra mondo esterno e soggetto, che giustifica il formarsi nel soggetto di rappresentazioni in grado di esprimere l’esterno mediante forme interne. È
precisamente su tali forme interne, del resto, che si applicano le successive
procedure di elaborazione, che avvengono in conformità a precise regole, onde configurare i cosiddetti processi cognitivi, i quali si concluderanno con la configurazione del campo
percettivo.
Per
precisare ulteriormente la continuità che sussiste tra l’ambiente e
l’organismo, si potrebbe aggiungere che lo stimolo evoca nell’organismo un
duplice ordine di processi. La sua componente fisica, che nel caso dello
stimolo ottico è una radiazione elettromagnetica e nel caso dello stimolo
acustico un’onda sonora, evoca processi neurofisiologici (essenzialmente
biologici); di contro, la sua componente cognitiva, o informazionale, evoca
processi cognitivi. In tal modo, l’ambiente prende forma per il soggetto che percepisce.
Ci
sembra opportuno sottolineare, tuttavia, che nei primi livelli
dell’elaborazione sensoriale il riferimento al significato – cioè alle cose che costituiscono ciò di cui il soggetto fa esperienza
cosciente – permane implicito (tacito), cioè rimane inconscio, così che il linguaggio degli
stimoli può venire considerato soltanto per
il suo aspetto sintattico. Che è come dire: la sintassi
che regola il linguaggio degli stimoli decreta i rapporti di combinazione delle
forme in ingresso, secondo una modalità che può venire assimilata a quella che
è propria di ogni altro linguaggio.
Il
linguaggio
degli stimoli diventa, insomma, espressione dell’ambiente e ciò avviene mediante configurazioni formali
e regole di combinazione di tali configurazioni. Queste ultime costituiscono il
primo passo di quel lungo processo che si concluderà con il presentarsi di forme-oggettuali, le quali, ancorché dotate esse stesse di proprietà
sintattiche, attestano altresì valore semantico esplicito, per la ragione che valgono come dati di cui il soggetto fa esperienza.
6. Linguaggio biologico e linguaggio cognitivo
Il
punto che a noi sembra estremamente rilevante può così venire riassunto: i due
ordini di processi di cui abbiamo parlato esprimono, in buona sostanza, il
linguaggio delle forme biologiche e il linguaggio
delle forme
cognitive, i quali costituiscono la traduzione, sul versante interno (dell’organismo e del sistema
cognitivo), del linguaggio degli stimoli, cioè del linguaggio esterno.
Affinché
i due linguaggi interni emergano nelle loro caratteristiche peculiari ed
essenziali, ricordiamo che tra le forme biologiche debbono innanzi tutto venire
annoverate le configurazioni neurali che si attivano in base allo stimolo. I
patterns di attivazione neurale, del resto, costituiscono essi stessi delle
forme, ossia sono modalità in cui la materia trova espressione.
Non sono, tuttavia, le uniche, giacché la reazione dell’organismo è costituita
anche da segnali
umorali, che sono messaggi chimici che
vengono trasmessi attraverso il flusso ematico, e da messaggi
elettrochimici trasmessi attraverso le vie
nervose.
La
risposta biologica allo stimolo è dunque multiforme:
si esprime, cioè, in una molteplicità di linguaggi, ciascuno dei quali si
costituisce di segni, fra loro vincolati in conformità a regole, le quali
impongono processi, o funzioni, che sono
automatici e che, pertanto, possono venire espressi mediante computazioni.
Come
detto, oltre che attivare processi neuro-fisiologici, lo stimolo, mediante le
informazioni che veicola, attiva processi cognitivi. Nel
caso della percezione, l’elaborazione bottom-up si dispone su tre
livelli. Il primo livello configura la cosiddetta codifica neurosensoriale, che esprime un’elaborazione pre-attentiva e modulare: si tratta,
dunque, di processi di elaborazione automatici, quindi inconsci, che vengono
compiuti da unità elaborative specializzate e incapsulate, i moduli cognitivi.
L’insieme di queste codifiche mette capo al configurarsi di rappresentazioni che, anche in questo caso, traducono
in un linguaggio interno le forme esterne, cioè le forme in ingresso.
Che
è come dire: l'informazione in ingresso viene adeguatamente marcata, cioè
codificata, e l'operazione di codifica è posta in essere dal sistema
neurosensoriale, attraverso meccanismi che si esprimono in forma analitica,
atta a scannerizzare lo stimolo e ad assegnare un codice alle sue
componenti (forme) elementari.
Successivamente,
e cioè dopo che lo stimolo è stato scomposto, il processo percettivo tende a
riunificare gli elementi ottenuti con l’analisi e v'è una prevalenza
dell'aspetto sintetico: in tale
secondo livello si mettono in relazione le primitive caratteristiche elementari
dello stimolo e, soprattutto, si ha l'elaborazione di rappresentazioni
strutturali, pilotate dalle proprietà (forme) degli stimoli stessi.
Le
forme, che si configurano a questo livello, sono ancora definite da proprietà
principalmente strutturali e non tanto
da proprietà semantiche, e tuttavia preparano il passaggio da una
considerazione esclusivamente sintattica delle rappresentazioni a una
considerazione che diventerà esplicitamente semantica, la quale definisce il
terzo livello, cioè quello percettivo vero e proprio.
Se
le forme sintattiche esprimono soltanto relazioni tra segni, lentamente ma
progressivamente esse vengono poi riferite anche a significati,
cioè a oggetti. L'elaborazione più avanzata, inoltre, non manifesta più
un’impenetrabilità cognitiva, giacché essa viene sempre di più influenzata dal
sistema generale in cui si colloca.
La
descrizione della traduzione delle forme esterne in forme interne può
compiersi, insomma, sia collocandosi sul versante del linguaggio biologico
(neurofisiologico) sia sul versante del linguaggio mentale.
7. Linguaggi
formali e lingua
Ribadiamo un aspetto, per la sua
rilevanza in ordine al discorso che andiamo svolgendo: l’elaborazione
cognitiva, e questa è precisamente la specificità del suo linguaggio, prepara il passaggio da forme, che inizialmente sono
soprattutto sintattiche, a forme che acquistano sempre più valenza semantica,
proprio perché vengono riferite a dati d'esperienza, a significati che acquistano
valore per il soggetto.
In virtù dell’uso del concetto di linguaggio, le differenze sussistenti
tra processo biologico e processo cognitivo possono bensì venire mantenute, ma
solo riconducendole alla loro comune matrice. Non
è affatto un caso che si parli di processi o di funzioni sia riferendosi a stati biologici sia a stati mentali.
L’uso della medesima parola si giustifica considerando il fatto che anche il
processo biologico è una sequenza di stati, i quali si pongono in modo tale che
ciascuno risulta funzione dello stato precedente e si pone in funzione del
successivo: ‘processo’ e ‘funzione’ si rivelano così espressioni che indicano
un medesimo significato. Ciò significa che, se i processi biologici possono
venire considerati per la loro valenza funzionale,
e dunque – in senso lato – cognitiva, processi computazionali, altrettanto i
processi cognitivi, per il loro esercitarsi su rappresentazioni che mantengono
una valenza
fisica, sono – in senso lato – fisici.
Le
sequenze biologiche sono ben formate solo quando valgono come processi
biologici normali e cioè quando si producono correttamente in base alle regole
di formazione, che sono codificate nel nostro DNA. Le sequenze ben
formate tendono poi a tradursi in altri processi biologici e, come per ogni
linguaggio, si danno tanto regole di formazione di sequenze (processi
biologici) quanto regole di trasformazione, per cui
si organizzeranno nuove sequenze (nuovi processi) a muovere da sequenze date.
Altrettanto, caratteristica fondamentale di ogni processo cognitivo è lo
svolgersi su forme simboliche (sequenze o stringhe di simboli), che si
caratterizzano per la loro dimensione fisica. È proprio tale dimensione che
consente di discriminare l’una forma dall’altra e che permette la loro
elaborazione in conformità a regole, che ne
prescrivono la corretta trasformazione. Nell’un
caso come nell’altro, dunque, si ha a che fare con linguaggi,
dal momento che sono dotati di segni e di regole per la loro manipolazione.
Indubbiamente,
la produttività che è propria di una lingua trova espressione
solo parziale nel linguaggio dei processi biologico-materiali o nel linguaggio
dei processi cognitivo-formali. Inoltre, è da rilevare che la relazione, che
dovrebbe sussistere tra il simbolo e l'informazione, costituisce un costrutto teorico, dal momento che si configura solo come un'ipotesi di
lavoro. Essa, infatti, poggia sull'assunto che, manipolando simboli, il
processo cognitivo manipoli informazioni. Se non che, la manipolazione dei
simboli può venire descritta e simulata soltanto nella sua dimensione
sintattica e computazionale, così che l'aspetto referenziale (semantico) non
può appartenere a questo livello di costituzione del processo.
Si
può solo dire che determinate informazioni attivano determinati processi, che
corrispondono a quelle informazioni. Ma non si può certo indicare il senso in forza del quale le forme cognitive, manipolate nel
processo di elaborazione, valgono come segni che
si riferiscono a dati di esperienza.
Affinché le forme valgano come segni che si riferiscono a dati appartenenti al
mondo dell’esperienza, il linguaggio biologico e il linguaggio cognitivo devono
tradursi in un linguaggio ulteriore: un linguaggio simbolico di secondo livello, nel quale le rappresentazioni esibiscono una natura più
astratta e complessa, in virtù della quale assumono un’indubbia valenza semantica.
Quanto
detto ci consente di affermare che il passaggio dal biologico al mentale – e
viceversa – risulta in tutta la sua evidenza allorché il linguaggio meccanico
dei processi biologici e dei processi cognitivi si traduce nella lingua ordinaria, che è espressione non soltanto di forme automatiche, ma
anche del pensiero
riflessivo e critico, condizione
dell’emergere della coscienza.
Il
passaggio a un linguaggio dotato di proprietà anche semantiche, dunque, può
venire inteso solo in virtù di un processo esplicito di codifica e di
ricodifica (cioè di categorizzazione o top-down)
nonché di interpretazione: tali processi vengono messi in atto solo
da un soggetto cosciente. L’uso di una lingua,
questo è il punto, attesta la presenza di una mente, intesa nel suo senso più
pieno e autentico, giacché si tratta di una mente che non è riducibile a una funzione
semplicemente automatica. Altrimenti detto:
se il processo di traduzione-trasformazione di linguaggi si caratterizza per
una sostanziale continuità, il presentarsi di una lingua, cioè di un linguaggio
dotato di una valenza semantica esplicita e dunque non solo computazionale,
implica l’emergere della funzione interpretante,
la quale interpreta il significato delle forme fornendo loro anche un senso. E ciò determina una soluzione di continuità estremamente significativa, perché è espressione
dell’emergere della coscienza nonché dell’autocoscienza.
Più
radicalmente, si potrebbe affermare che è possibile parlare di processi
automatici di elaborazione dell’informazione, o di linguaggi formali, solo in
virtù di una funzione interpretante,
la quale implica innegabilmente la funzione cosciente. La
coscienza, insomma, non può non emergere oltre i processi automatici e i
linguaggi formalizzati, perché solo emergendo oltre di essi può riconoscerli.
Soltanto la coscienza, quindi, è in grado di porre una codifica e una
decodifica non automatiche e solo essa fa valere la distinzione tra linguaggio
e lingua, tra codifica implicita ed esplicita, tra algoritmi che si sviluppano
automaticamente in conformità a regole e decisione soggettiva.
Si
potrebbe dire che la lingua, per il suo
valere come linguaggio di secondo livello, cioè come un linguaggio con cui ci
si può riferire ad ogni altro linguaggio, costituisce l’espressione più diretta
e significativa della proprietà riflessiva del pensiero e
della coscienza. La lingua, infatti, configura quel linguaggio in virtù del
quale non soltanto è possibile dire di ogni altro linguaggio, ma è anche
possibile al soggetto riferirsi a se stesso nonché al proprio dire. Per questa
ragione, la lingua può venire considerata l’espressione più diretta e compiuta
della mente.
Conclusioni
Avere
inteso la relazione non più come costrutto mono-diadico, ma come l’atto del
riferirsi dei termini, ha consentito di offrire una soluzione linguistica al Mind-Body Problem. Mente
e corpo, colti come segni dotati di una loro
intrinseca strutturazione, possono venire pensati come universi
linguistici, i quali da un lato traducono
in forme interne le forme esterne provenienti dall’ambiente, dall’altro
traducono di continuo le forme interne appartenenti al biologico-corporale in
quelle appartenenti al cognitivo-mentale, e viceversa.
L’emergere
della coscienza rende possibile il costituirsi della lingua ordinaria, la quale configura un linguaggio che non è più
tacito, ma che fa esplicito riferimento a significati, i quali appartengono
all’universo dell’esperienza di un soggetto. Reciprocamente, nel suo dire anche
di se medesima, la lingua non fa che esprimere la stessa proprietà
riflessiva, che della coscienza costituisce
la caratteristica peculiare.
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Giancarlo Ianulardo, University of Exeter, Streatham Court,
Exeter (UK), EX4 4PU, e-mail: g.ianulardo@exeter.ac.uk
Aldo Stella,
Università per Stranieri di Perugia, Piazza Fortebraccio 4, 06123 Perugia,
aldo.stella@unistrapg.it ; Università
degli Studi di Perugia, Piazza Ermini 1, 06123 Perugia, aldo.stella@unipg.it .
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© THÈMES, revue de la BPC, II/2016